Eimuntas Nekrošius e la classica modernità del suo teatro. In ricordo del regista scomparso
Padri, Lituania, polvere, luogo, giovani, partitura, scontri, esergo: ricordiamo il regista lituano scomparso nel giorno del suo 66esimo compleanno attraverso le sue parole e le riflessioni sui temi che hanno contraddistinto la sua vita e il suo teatro
Avrebbe compiuto 66 ieri e invece ci ha lasciati d’improvviso, il regista lituano Eimuntas Nekrošius (Pažobris, 1952 – Vilnius, 2018), mentre stava lavorando all’Edipo a Colono per il prossimo festival di Napoli. Capace di restituire ai classici un potere unico e originale, il suo teatro, caratterizzato da una recitazione attoriale particolarmente attenta alla partitura fisica e ad un utilizzo narrativo degli oggetti in scena, è stato maestro per tanti.
Con l’Italia aveva un rapporto privilegiato: in scena nei più grandi teatri con le sue riletture di Shakespeare, Gogol’, Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, Camus. Dal 2011 al 2013 fu anche direttore del Teatro Olimpico di Vicenza.
Le tre sorelle di Cechov è stato il primo spettacolo del regista che ho visto, al teatro Eliseo di Roma, era il 1995. Si percepiva qualcosa di speciale: un Cechov fatto con gag e con azioni fisiche, che pur non inscritte nel testo non lo dirottavano fuori dal suo spazio-tempo. Anzi riuscivano a incidere profondamente nel classico cechoviano come se solo attraverso quello spettacolo, per la prima volta, potessi comprenderne pienamente il senso. Ancora più incisivo, in questa dimensione di apertura di un testo noto, è stata la visione di Hamletas al Teatro Valle. Allora decisi di voler carpire il segreto di questa formula per cui il regista lituano riusciva a far riscoprire, come fossero nuovi, dei testi e degli spettacoli consumati da decenni di allestimenti in tutto il mondo. Nella monografia che dedicai a Nekrošius nella collana Teatro contemporaneo d’autore (ed. Rubbettino 2000), argomentai questa dimensione come “classica modernità”, propria della tradizione teatrale russa sovietica, la quale era stata capace di trasmettere, senza rotture traumatiche, l’eredità dell’avanguardia di Meyerchol’d, Ejzenstejn, Stanislavskij.
Ma certo c’è dell’altro, del genio, quella capacità di ossimorica unione degli opposti che ha fatto si che Nekrošius diventasse (già in vita) un riferimento per le generazioni a seguire.
Abbiamo compilato, estraendo da conversazioni con il regista, un dizionario portatile della sua visione del mondo-teatro. Vogliamo condividerlo oggi per ricordarlo attraverso le sue parole.
– Valentina Valentini
Fonti
V. Valentini, Nekrosiûs, “Durezza, concretezza, verità”, Rubbettino, 2000, pp. 79-87
A. Bianco (a cura di), Quaderni di Egumteatro, “Incontro con Eimuntas Nekrosiûs”, Associazione culturale Egumteatro, n.3, 1998, pp. 3-7
PADRI
L’esperienza non si trasmette a periodi, io la penso così. Quello che ci è arrivato su Stanislavskij è ormai pura mistica. Come fosse lui davvero, nessuno può dircelo. (…) Perché dovrei imitare qualcuno se ho una voce mia, un timbro mio? Sarebbe un approccio non creativo: ogni individuo deve mostrare qualcosa di suo, la sua intonazione. Sono contrario a qualsiasi cognome. (…) Per una persona di talento le tradizioni non esistono, perché fa certe cose in linea di principio. Se si pensasse alle tradizioni, non si avrebbe tempo per lavorare. Forse esiste tra la gente che fa teatro, una trasmissione di idee che passa da un uomo all’altro, una sorta di archivio genetico della memoria. Probabilmente le cose buone non svaniscono ma ispirano l’immaginario di altre persone. È confortante pensarlo.
LITUANIA
La Lituania è la mia terra, e solo lì io trovo ispirazione al mio lavoro. Ma quanto alla politica militante ho sempre pensato che sia una cosa molto lontana dall’arte. Noi abbiamo una biografia molto diversa dal resto dell’Europa. Non siamo né francesi né inglesi, siamo cresciuti nei campi di patate. Non si possono rinnegare le proprie origini. Non abbiamo bisogno di imitare nessuno.
POLVERE
Il teatro è un’arte che invecchia presto a differenza della musica. Non so. È interessante guardare se stessi come allo specchio, ma non mi sono mai guardato. Non ho tutta questa voglia che i miei spettacoli siano conservati. (…) A differenza della letteratura e della pittura, il teatro non è un’arte tanto fondamentale perché debba rimanerne qualcosa. (…) Qualche volta rivedendo soprattutto gli spettacoli che ho amato, qualche persona che ho amato, sono rimasto male. Quando passa il tempo, si possono apportare delle correzioni. Soltanto Chaplin continuo a guardarlo e non invecchia. Ma il teatro invecchia rapidamente, fa spavento come invecchia.
IL LUOGO
Credo che l’arte debba avere il meno a che fare con il naturalismo. Personalmente cerco di mescolare il naturalismo con delle invenzioni. Si genera una terza cosa; si generano potenti esplosioni, ed è questo quello che è più degno di considerazione ed interesse; non avvengono né nella vita né nell’arte, ma solo in quel terzo nuovo “luogo”. (…) Il mio compito è mostrare non dimostrare; così accade che talvolta io stesso non mi spieghi il perché di qualcosa che avviene nei miei spettacoli, e comunque penso che così debba essere. La teoria teatrale non fa per me: sono un pratico puro.
I GIOVANI
Ho visto molti spettacoli che sono fatti come video-clip, con oggetti casuali e su temi casuali. E chissà perché, si può notare che in giro per il mondo viene apprezzata questa maniera di lavorare. Mentre le cose semplici, che sono mille vote più difficili da fare, chissà perché, non sono apprezzate. Particolarmente difficili sono i momenti psicologici nel teatro. Il teatro senza psicologia è popolare ed è considerato d’avanguardia (come se ci fosse qualcos’altro). Invece un teatro con una psicologia dettagliata, con dei sentimenti circostanziati, è ritenuto antiquato. Questo mi offende molto. I sentimenti sono importanti.
PARTITURA
Il regista deve essere capace di leggere lo spettacolo in verticale, come una partitura musicale. Può darsi che sia un argomento poco interessante, ma a me interessa sempre il momento in cui il direttore d’orchestra legge sul foglio dello spartito tutte le parti dell’operetta di Kálmán. Così deve essere anche in teatro. È questo il modo in cui anche un regista deve guardare. È allora che si ha qualcosa d’interessante, è proprio allora che viene fuori la polifonia, e si evidenziano i dettagli, se si fa così si otterrà tutto… Saper leggere in verticale.
SCONTRI
La forma non è così interessante. Cosa rimane dei nostri spettacoli, cosa si ricorda? Alcuni sentimenti. Ciò di cui parlava l’attore non lo ricordi ma ricordi come parlava, con che intonazioni, con lo sguardo, che mani aveva e che occhi… Come si fa a mettersi in concorrenza con i video-clip, il cinema… non facciamo in tempo, non riusciamo a stare al passo per motivi legati alla tecnologia. Ci rimane solo una posizione: l’uomo, l’uomo e lo spazio, il risultato è la bellezza.
ESERGO
Non dobbiamo sopravvalutare il teatro. È una professione dove il diploma non è determinante. Qualità innate, carattere, oppure timbro della voce sono più importanti. (…) Suona buffo quando uno dichiara “Io posso recitare Amleto”. Non si impara a recitare Amleto. O si è geneticamente portati e aperti a un tale ruolo, oppure non lo si è. (…) Il libro di Stanislavskij sul mestiere dell’attore è una cosa meravigliosa. Tutti, assolutamente, dovrebbero leggerlo: ladri, traditori, diplomatici, politici e altre persone importanti, tutti. Imparerebbero come si fa a esigere, come si fa a dire bugie guardando dritto negli occhi della gente, senza bagnarsi di sudore.
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati