Agostino Arrivabene. Un italiano all’Opéra di Montecarlo
Parola ad Agostino Arrivabene e a Jean-Louis Grinda, scenografo-costumista e regista del “Samson et Dalil”a di Camille Saint-Saëns, in scena all’Opéra di Montecarlo.
Agostino Arrivabene (Rivolta d’Adda, 1967) è stato scelto dall’Opéra di Montecarlo per progettare scenografie e costumi del Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns. La regia è di Jean-Louis Grinda e la direzione musicale di Kazuki Yamada.
L’artista cremonese si avvicinò al teatro nel 2004, quando il regista Pier Luigi Pizzi si ispirò interamente ai suoi dipinti per le scenografie dell’opera Hans Heiling di Heinrich Marschner. La collaborazione odierna vede Arrivabene impegnato in un’impresa ben più strutturata: scene e costumi nascono dal suo estro onirico. Samson et Dalila è intrisa di passione, forza, fede: Arrivabene la investe con un’arte misterica, richiamo dell’inconoscibile, e con un’attrazione irrefrenabile verso la dualità di eros e thanatos.
Al Grimaldi Forum dell’Opéra di Montecarlo, dopo la prima del 19 novembre in occasione dei festeggiamenti del Principato di Monaco e alla presenza del Principe Alberto, della famiglia e dei suoi ospiti, le rappresentazioni saranno aperte al pubblico il 22 e 25 novembre.
Abbiamo intervistato Agostino Arrivabene e Jean-Louis Grinda, chiedendo loro le origini della commissione, il lavoro sugli atti e i rimandi in campo letterario, artistico e musicale, per guardare in modo più profondo un’opera lirica di straordinaria attualità.
Silvia Scaravaggi: Il tuo ingaggio per l’Opéra di Montecarlo è una commissione istituzionale a un artista italiano contemporaneo da parte di uno Stato estero. Com’è nata questa collaborazione?
Agostino Arrivabene: Il mio manager teatrale conosceva già le mie opere, ma solo dopo averle viste nella Galleria Bonelli a Pietrasanta decise di contattarmi. Così nel 2016 conobbi anche Grinda, futuro regista dell’opera. Il progetto parve arenarsi ma Jean-Louis portò Samson et Dalila all’Opera di Montecarlo, con la coproduzione aggiuntiva del Teatro di Shanghai e del Coregie d’Orange, in Francia. Devo tutto a lui che, con tenacia e stima, ha creduto nel nostro progetto, facendolo proseguire con determinazione. Il light designer Laurent Castaingt ha condensato qui le evocazioni pittoriche del decadentismo europeo: movimento che da sempre nutre la mia poetica. Luci e atmosfere di rara eleganza riportano alle dense ombre dei dipinti fiamminghi del tardo Seicento, alle fumosità delle opere simboliste di Gustave Moreau.
Giuseppe Pennisi: Quando Camille Saint-Saëns compose Samson et Dalila era ancora un ‘wagneriano di ferro’. Si riflette questo aspetto nella produzione al Forum Grimaldi?
Jean-Louis Grinda: La musica di Wagner fu certamente fonte di ispirazione per Saint-Saëns, sia per l’orchestrazione che per l’impiego dei lietmotiv. Da un punto di vista drammaturgico questa messa in scena non cerca in alcun modo una relazione con l’opera wagneriana.
G. P.: Il lavoro fu inizialmente concepito come oratorio, anche se l’uso molto curato di una grande orchestra e il trattamento dei temi conduttori lo rendono simile a un’opera lirica. Nella produzione l’accento è più sugli aspetti oratoriali o su quelli di grand opéra?
J-L.G. : Quest’ultimo è l’aspetto privilegiato nella nuova produzione. Samson et Dalila non è reso nella forma dell’oratorio poiché la dimensione epica dei cori e l’eroica dei personaggi conducono alla necessità assoluta di una rappresentazione di taglio teatrale.
S. S.: Quali sono i riferimenti culturali da cui hai attinto?
A. A.: Ho realizzato l’intera scenografia partendo da pro-genius, un dipinto in monocromo eseguito per la mostra personale Theoin (2012) che raffigura un maestoso portale, ingresso del regno dell’Ade. Ho realizzato una anamorfosi, ispirata alla pittura di François Didier Nomè, artista lorenese del diciassettesimo secolo, conosciuto come Monsù Desiderio. Attraverso un modellino ridotto in tre dimensioni e adattato al boccascena del teatro di Montecarlo, ho ricreato con un lento lavoro, simulando spazi chiaroscurali virtuali, una apparente tridimensionalità. Dopo l’antepiano mi sono reso conto dell’influenza esercitata dal mio amore per Moreau e per le atmosfere rarefatte che contraddistinguono l’acquarello L’apparition (1876), descritte da Huysmans in A rebours. Nel terzo atto, incentrato sull’epilogo di Sansone e dei filistei, mentre il sipario si alza, ho rivisto luci e vibrazioni dell’acquerello di Moreau, come le suggestioni di Salomè dansant devant Hérode (1876). Rimandi a Le carceri di Piranesi sono evidenti sempre nel terzo atto: enormi catene frenano la forza di Sansone e le architetture sono rese più fredde dalle luci che sottolineano nel fondo una ruota ‒ simbolo del divenire del tempo e del destino ‒ finemente decorata, citazione del tempio di Konarak in India.
S. S. e G. P.: Come hai lavorato sui costumi e le scene e in che modo evocano Moreau? Sono contemporanei o atemporali?
A. A.: Le atmosfere simboliste di Moreau entrano prepotentemente nel mio immaginario ma sono diluite con citazioni tratte dal cinema muto. Con Grinda ho realizzato una vera proiezione in bianco e nero sulla tenda berbera di Dalila e qui si palesa la sua natura crudele di donna virago. I riferimenti chiari ai codici e ai maestri della storia dell’arte, sia che prendano in considerazione le processioni musive delle chiese bizantine a Ravenna, il cinema muto dei primi del Novecento o le atmosfere eclettiche di Blade Runner, traspongono l’intera opera in una dimensione atemporale dove passato, presente e futuro collimano in un amalgama visionario: luogo impossibile, dove ogni cosa viene risucchiata dal maelström di un’architettura contorta verso un destino comune a tutti gli esseri umani.
S. S.: Con chi hai collaborato per la realizzazione dei costumi?
A. A.: Le manifatture di questa opera sono quasi interamente italiane: la Casa d’arte CTC di Gio Fiore, le attrezzerie di Rancati, le scenografie di Arianese, le calzature Pompei, le parrucche di Mario Audello: con questi professionisti ho trovato una sinergia perfetta. Le idee progettuali si sono trasformate in abiti sontuosi, parrucche quasi impossibili nella loro struttura gravitazionale in una scenografia estroflessa, in una anamorfosi architettonica. I costumi dell’opera balzano, sulle membra dei personaggi in scena, come se uscissero direttamente dai miei dipinti, citando talvolta stilisti come Alexander McQueen, Rick Owens e gli stereotipi del costume medioevale. L’immagine della dea dei serpenti cretese mi è corsa in aiuto per il costume di Dalila nel terzo atto: il più oscuro e gotico fra i tre che indossa. Nel coro femminile i capi delle coreute si ornano di acconciature assiro-babilonesi e le pieghe degli abiti di Mariano Fortuny donano grazia alla schiera di filistei, santi e martiri di tradizione ravennate-bizantina; così il Gran sacerdote è fermato prima in un abito ieratico, solenne, dai toni lattei, con metalli argentei e innesti di piume di pavone, abbinato a un copricapo che ricorda quelli degli affreschi delle Storie della Vera Croce di Piero della Francesca, poi in un enorme mantello nero che simula un pelo animale sulle forme di un piviale papale. Lo scettro del comando, simbolo della devozione al Dio Dagon, è realizzato interamente in cesello.
‒ Giuseppe Pennisi e Silvia Scaravaggi
www.agostinoarrivabene.it
www.opera.mc
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