Danza e fluidità. Intervista a Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi
Parola al duo che ha regalato alla danza una gamma di inedite sfumature.
Stanno atterrando a Parigi per il debutto di Harleking al festival Signes d’Automne (29 e 30 novembre), per poi volare in Italia dove partecipano, per il secondo anno, all’Osservatorio Mantica, diretto a Cesena da Chiara Guidi (2 dicembre, al Teatro Comandini). Il festival Danae di Milano, Inequilibrio, il Tanzfabrik di Berlino e diversi tra spazi d’arte e gallerie hanno già accolto i loro lavori, mentre Ariella Vidach (DiDStudio) ha deciso di produrli per il secondo anno consecutivo. Sostenuti dalla Germania, oltre che dall’Italia, Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi sono un fulmine a ciel sereno nella nuova danza nostrana, un connubio fertile di pensiero e pratica, un duo capace di aprire nuove strade. Non a caso (recentissima notizia!) sono tra gli artisti selezionati dal network Aerowaves per entrare a far parte del prolifico circuito internazionale.
La vostra formazione ha un percorso comune e anche per alcuni versi fuori dai confini della danza. Non a caso portate avanti anche una ricerca visiva che si configura in mostre fotografiche, video, installazioni… Ci raccontate i vostri inizi?
Enrico Ticconi: Ginevra e io abbiamo fatto tutto insieme fin dall’inizio, dal liceo artistico all’Accademia di Belle Arti (scenografia teatrale).
Ginevra Panzetti: Ci siamo avvicinati alla danza attraverso un corso pomeridiano del liceo. Alla fine dell’Accademia abbiamo iniziato la Stoa [la scuola di movimento della Raffaello Sanzio N.d.R.].
E. T.: Per me la svolta accademica è avvenuta con Diana Damiani, con la scuola di professionalizzazione.
G. P.: Mentre io ritenevo che i corsi intensivi rovinassero la memoria corporea, quindi non lo seguii. Qui si sono divise (in parte) le nostre strade. Nel 2010 ci siamo trasferiti in Germania dove Enrico ha studiato danza e coreografia alla Inter-University Center for Dance mentre io Arte dei Media all’Accademia di Belle Arti di Lipsia. Enrico è diventato un bravissimo danzatore mentre io approfondivo le arti visive, il video… Questo ci ha anche permesso di individuare delle linee di interesse specifiche.
E. T.: La Stoa ha coinciso con l’inizio del nostro “duo”. Area è il lavoro coreografico che nasce da questo percorso e che diventa poi subito anche altre cose: un viaggio in bicicletta da Vienna a Budapest con il desiderio di lavorare sugli spazi diversi che avremmo incontrato. Il viaggio ha dato vita a delle opere video, alcune delle quali documentazione delle performance.
Altri lavori, come Empatia e Empatia 8 capricci enfatici, mettono in luce questa relazione tra ricerca coreografica e arti visive. Mentre la liveness sembra sempre permanere, che si tratti di danza, video o foto.
E. T.: Sì, vero, anche nella produzione più legata alle arti visive le nostre figure sono sempre molto presenti, ripetute fino all’ossessione. Siamo sempre noi due.
Fin dal primo lavoro vi è un’attenzione particolare al paesaggio, all’architettura, allo spazio, in alcuni casi vere e proprie mappe. Uno spazio sempre abitato da figure (e dalle vostre figure, appunto). Che aspetto assume questo tema ricorrente nei vostri lavori e nell’ultima produzione, Harleking?
G. P.: Hai identificato un nodo importante nel nostro lavoro: la coreografia come strumento di misurazione e controllo dello spazio e di intervento sul territorio. Una pratica che si applica a una precisa area geografica o a un luogo ben preciso, dal micro al macro, da una sala a una pianta urbanistica o a un paesaggio. Ad esempio nel video Die Wanderer, che nasce anche esso da un viaggio, l’atto di ripercorrere delle tappe prestabilite (quelle del Grand Tour di scrittori e artisti in epoca romantica), coincide con una forma di controllo del territorio. Le nostre due figure si stagliano sul paesaggio non più per sottolinearne l’infinitezza (come era nei quadri romantici), ma per diventare soggetto, sovrastare la natura, sottolineare una forma autoritaria.
Centrale è lo spazio, anche come spazio sociale, in cui agiscono forze diverse, da quelle della comunicazione massmediatica a forze più astratte, talvolta violente. Questo accompagnato da un’altra presenza forte: la figura. Un aspetto plastico la caratterizza, una gestualità che, talvolta semplice, rimanda chiaramente a un archivio di gesti o a riferimenti iconografici: i visi, le espressioni (in Harleking in particolar modo) hanno un valore iconico importante, talvolta si avvicinano alla maschera. Che relazione si crea tra spazio e figura, in particolare in Harleking, dove quest’ultima sembra prendere il sopravvento?
G. P.: Giusta analisi. Anche per Harleking eravamo partiti dall’idea di figure nello spazio. Il titolo iniziale era “square”, piazza, luogo in cui tutte le strade convergono e si crea lo scambio, la comunicazione. La figura ha poi preso il sopravvento.
E. T.: Questa figura abitante la piazza è un personaggio ibrido a cui associamo un riferimento specifico alla grottesca, una forma di decorazione muraria molto antica.
La grottesca unisce delle volute ornamentali ed eleganti a elementi figurativi mostruosi. Ci interessava l’unione di due opposti che creano una sorta di asintonia, un fastidio, qualcosa di difficilmente riconoscibile.
Quanto dici sugli opposti mi interessa in quanto sembra un elemento già presente in Le Jardin, vero? Un giardino che sembra un luogo di pace e che invece si svela come simbolo del predominio dell’uomo sulla natura.
G. P.: Sì. La differenza radicale tra i due è che mentre Le Jardin lavora con gli opposti seguendo un filo quasi narrativo, per Harleking li abbiamo trattati per quadri.
Che ruolo ha la mimesi nell’identificazione di una gestualità all’interno del vostro lavoro? Si può parlare in alcuni casi di una gestualità mimetica? E quali sono i riferimenti?
E. T.: Hai colto un altro elemento fondamentale nel nostro lavoro, sia coreografico che video e fotografico. Lo studio mimetico è la base fin dai primi lavori. Per Aria abbiamo documentato attraverso il video la gestualità di passanti nelle piazze e poi imparato a memoria i gesti, astraendo e concedendoci la libertà di ripensarne l’estetica in alcuni casi.
G. P.: Le fonti sono varie, ad esempio per Actio il lavoro mimetico parte da un testo scritto, il primo trattato sulla retorica.
E. T.: Per Empatia, il riferimento iconografico e mimetico era l’opera di Goya I disastri della guerra. Ogni lavoro ha un piccolo archivio di riferimenti mimetici. Questo ci permette anche di far riferimento a un immaginario storico e comune. Oltre al fatto che per noi il corpo è un archivio storico e si tratta sempre di rappresentare questo corpo, la sua storia e tradizione
In Herleking quali sono questi riferimenti?
G. P.: Abbiamo lavorato sull’espressività legata alle maschere della commedia dell’arte, figure grottesche per eccellenza, di cui ci interessava in particolare Arlecchino. Nato come servo, attento ai bisogni basilari: fame, sesso, cibo, desiderio di ricchezza, nella tradizione ha un forte rapporto con il potere. Volevamo, attraverso di lui, approfondire un paradosso, far diventare un servo re (Harlequin + king del titolo).
Nel vostro lavoro il potere è inteso sotto diversi aspetti, in alcuni casi, come in Le Jardin, assume forme violente (penso ai manganelli che portate tra le mani). Sicuramente questa forma di potere rimanda a epoche e geografie politiche diverse, mi chiedo quanto abbia inciso il vostro aver vissuto a lungo in territori come la Germania (dove Enrico ancora vive)?
G. P.: È un immaginario legato in generale a forme di potere che hanno caratterizzato il Novecento occidentale in diversi Paesi. Un potere che ritorna come un fantasma.
In Harleking questo potere si trasforma, diventa fluido, più ambiguo e meno riconoscibile rispetto a quello espresso negli altri lavori. La sua rappresentazione viene personificata da una figura ibrida, non autoritaria, divertente e accattivante, che fa ridere ma allo stesso tempo può uccidere. È la beffa, una beffa.
‒ Chiara Pirri
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