Teatro. Intervista al premio Ubu Milo Rau
Il regista svizzero racconta il proprio lavoro. A partire dallo spettacolo in arrivo al Romaeuropa Festival.
Ha vinto il premio Ubu con Five easy pieces (2017) e oggi il regista e documentarista svizzero Milo Rau (Berna, 1977), tra i più apprezzati della scena internazionale, firma un nuovo spettacolo e un film-documentario. Dopo aver evocato il recente caso di Marc Dutroux e delle sue giovanissime vittime in Belgio, torna a riflettere sul crimine e sul fare teatro, sul valore e sul senso della rappresentazione con The Repetition – Histoire(s) du Théâtre. Dopo il debutto al Kunsteinfestivaldesarts di Bruxelles e la tappa parigina al festival d’Automne, lo spettacolo sarà in scena in Italia per il Romaeuropa Festival, al teatro Vascello, dal 9 all’11 novembre.
Da non perdere anche (e soprattutto!) The Congo Tribunal (l’8 novembre all’Opificio Romaeuropa), film attraverso cui Rau cerca di analizzare le cause della guerra del Congo e dei suoi oltre sei milioni di morti nel corso degli ultimi vent’anni, mettendo insieme vittime, perpetratori, osservatori e studiosi del conflitto. Il Congo, territorio profondamente legato alla storia colonialista belga e quindi anche ai due fatti narrati nei sue ultimi spettacoli, diventa in questo documentario lo scenario di un fittizio “tribunale”, il modo attraverso cui Milo Rau esprime la sua poetica “quasi attivista”, come la definisce nell’intervista che segue.
The Repetition porta in scena la vicenda di cronaca nera legata all’omicidio di Ihsane Jarfi, ucciso da un gruppo di giovani di fronte a un bar a Liegi (Belgio). Non è la prima volta che tratti un fatto di cronaca. Potremmo dire che tutto il tuo percorso artistico è caratterizzato da un forte legame con la cronaca e con quegli avvenimenti che hanno sconvolto o segnato la storia di una comunità. Il tuo teatro, allora, sembra assumere la forma di un tribunale in cui la realtà viene affrontata senza peli sulla lingua, senza fronzoli metaforici. Eppure, contemporaneamente, sono questi fatti a permetterti di riflettere sulla funzione stessa del teatro. Perché la storia di Ihsane Jarfi? Di che cosa ti ha permesso di parlare?
In un certo senso si è trattato di un caso. Alcuni degli attori con cui lavoro hanno seguito il processo e l’avvocato di uno degli assassini è una persona che conosco da molto tempo. Si tratta, come dici, di un fatto di cronaca, che è stato molto seguito in Belgio, ma non è certo un caso storico. Una tragedia che si gioca sul piano del quotidiano, sia dal punto di vista politico che umano, eppure una storia che sprigiona una forza universale. È anche la sua banalità, in un certo senso, ad avermi interessato; quella di una violenza che scaturisce dal nulla, che si manifesta quasi per caso, per la coincidenza di un incontro, senza premeditazione. Non si tratta di un vero e proprio atto criminale preterintenzionale, preparato o organizzato e d’altro canto è proprio in questo che io ritrovo la tragedia. Abbiamo incontrato la famiglia e gli amici di Ihsane. Abbiamo lavorato anche con alcuni cittadini di Liegi, ne abbiamo scelti due attraverso dei provini a cui si sono aggiunti quattro attori, tre con cui lavoro da tempo più un quarto, scelto attraverso un casting, che ha il ruolo di Ihsane.
The Repetition è anche il titolo di un saggio/novella, quasi autobiografico, di Kierkegaard sulla relazione tra estetica ed etica. Cosa lega lo spettacolo a questo scritto?
Il titolo francese è La Reprise, poiché mentre la “répétition” è un atto tecnico, la “ripresa” è un atto esistenziale, che porta con sé un desiderio utopico di cambiamento. Lo spettacolo è la risposta teatrale alla questione della morte, si inserisce in una visione dell’arte come strumento di opposizione alla finitudine attraverso il dialogo con il passato. È su questo che torniamo al pensiero di Kierkegaard, filosofo che ha cercato una sorta di trascendenza immanente ed esistenziale, qualcosa che si offrisse come risposta alla morte, non nell’aldilà ma nell’oggi. E lo ha trovato nell’arte, come noi in una modalità di fare teatro. Come superare la rappresentazione? È qualcosa che mi chiedo da tempo e non solo sul piano politico ma anche sul piano più semplice, emotivo. Come descrivere l’emotività di genitori che non possono più parlare con il proprio figlio? Come descriverne il lutto? “Ripresa” quindi anche nel senso di riprendere qualcosa per comprenderla meglio, per farne uscire qualcosa in più che la banalità del male.
Lo spettacolo vede in scena sei attori di cui due non professionisti (una dog sitter e un magazziniere). Non è la prima volta che scegli di mettere insieme attori professionisti e non, lo abbiamo visto già con Five easy pieces, grazie al quale hai vinto l’Ubu l’anno scorso, dove protagonisti sono sette bambini. Cosa portano in scena attori non professionisti e come si confrontano con le tue produzioni?
Lavorare con attori non professionisti richiede molto tempo, poiché è necessario un lavoro lungo e approfondito affinché acquisiscano la stoffa attoriale. Allo stesso tempo la loro presenza sulla scena aiuta la de-professionalizzazione dei professionisti, che è una cosa altrettanto positiva.
Al debutto dello spettacolo è corrisposta la pubblicazione di NTGent Manifest. Si tratta di alcune regole rigide che verranno applicate alle produzioni di NTGent sotto la tua direzione da ora in poi. The Repetition è già un esempio dell’applicazione di tali regole, pensate per quello che definisci un teatro democratico del reale. Di cosa si tratta?
Per lo più sono regole tecniche, la prima forse un po’ più filosofica, poiché recita: “Non rappresentare il reale ma realizza qualcosa in scena, affinché lo spettacolo sia più che l’adattamento di un classico, un atto creativo”. Oggi spesso si parla di creazione riguardo alla messa in scena di testi di Molière o di Houellebacq, mentre in questi casi, quando il testo è già scritto da altri, si tratta solo di un adattamento. Volevo tornare a un teatro d’autore. Il Manifesto vieta i classici per un ritorno alla creazione e questo è forse il punto più importante del manifesto. Il NTGent Manifest analizza inoltre l’approccio al pubblico e all’istituzione teatrale. È necessario creare una dialettica fra il teatro di ricerca e quello di repertorio che mette in scena i classici. Volevo uscire dal vecchio dibattito ideologico che oppone queste due forme per cercarne una nuova che possa restaurare il teatro istituzionale. Attraverso le regole del Manifesto credo sia possibile.
Il tuo teatro spesso riesce a cambiare e incidere politicamente sulla realtà. Il pubblico del Romaeuropa potrà vederlo anche nel film The Congo Tribunal.
Un progetto differente ma che sembra legarsi perfettamente a The Repetition. Come nasce questo film e in che maniera si inserisce nella tua produzione artistica?
La mia pratica artistica è caratterizzata da due estremi, opposti ma congiunti. Da una parte una tendenza positiva, quasi attivista, quella di The Congo Tribunal, per il quale, partendo dalla rappresentazione della realtà (la guerra civile in Congo), e dalla creazione di qualcosa, un tribunale, abbiamo dato vita a un effetto reale, come il licenziamento di due ministri. Il film racconta e documenta la storia di questo progetto. Poi ci sono gli spettacoli come quello che vedrete in queste serate, più pessimisti forse, nonostante alla fine vi sia una giustizia poetica, nati per approfondire la questione del Male. Da una parte quindi si va a fondo, dall’altra vi è il tentativo di cambiare qualcosa.
Come diceva Gramsci, “la depressione della ragione e l’ottimismo della volontà”.
‒ Chiara Pirri
L’intervista è un estratto dei programmi di sala di Romaeuropa Festival.
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