Il confine tra scandalo e innovazione. Intervista a Steven Cohen
In scena al Danae Festival di Milano con l’opera “Put Your Heart Under Your Feet… And Walk!”, Steven Cohen ne racconta la genesi e descrive tutta la fatica racchiusa nel sopravvivere al dolore.
Quando si parla di performance, portare in scena momenti particolari del proprio vissuto è un grande atto di coraggio: non solo per la generosità con la quale si dà in pasto alla platea un affare privato, ma anche perché, nel caso in cui il linguaggio usato non preveda una tecnica non accessibile a chiunque, la sindrome del “Lo potevo fare anche io!” è dietro l’angolo. Proprio partendo da qui Steven Cohen (Johannesburg, 1962), artista visivo e performer queer di origini ebraiche e sudafricane, è riuscito a scioccare il pubblico di Danae Festival ribaltando magistralmente il discorso.
Put Your Heart Under Your Feet… And Walk! è una performance di video e movimento dedicata alla recentissima perdita del compagno Elu, suo collega e amore di una vita. Dopo una passerella su trampoli a forma di bara di bambino e una serie di video che lo ritraggono intento a rotolarsi in un mattatoio, il truccatissimo Cohen annuncia alla platea: “Quello che sto facendo non è uno spettacolo. È un rituale del quale siete tutti partecipi. Ora mangerò un cucchiaio delle ceneri di Elu, il mio defunto compagno, in modo che possa rivivere attraverso di me. Possa Dio perdonarmi, possa il suo amore essere con tutti voi”. Dal “Lo potevo fare anche io!” Al “Non l’avrei fatto neanche sotto tortura” in men che non si dica. L’abbiamo incontrato per capire meglio cosa c’è alle spalle del suo gesto, cercando di indagare il confine tra scandalo e innovazione.
Ho trovato Put Your Heart Under Your Feet… And Walk! esattamente la cosa più innovativa che vedo da anni, ma anche decisamente disturbante. Lo consideri innanzitutto un rituale o uno spettacolo?
Penso innanzitutto che, avendo visto la performance da spettatore, dovresti parlarne da questo punto di vista. Gli artisti non sono necessariamente esperti del proprio lavoro: questo, ad esempio, è il lavoro che dovevo, non quello che volevo fare. Credo sia uno spettacolo e un rituale allo stesso tempo, una performance ma anche qualcosa di vero, parla della morte ma è fatto con le ultime gocce della mia vitalità: è un tipo di lavoro per il quale è difficile trovare parole. Rispondere alle domande che suscita è abbastanza irrilevante, l’unica risposta possibile è il lavoro stesso.
Quali sono le caratteristiche che hanno reso vero il rituale messo in scena?
Penso che il fatto di aver consumato davvero le ceneri del mio compagno defunto abbia trasformato la performance da una messa in scena a un vero rituale. È sicuramente l’azione più dura che abbia mai compiuto nella mia vita, più dura che bere un bicchiere di veleno. Ma è anche una sorta di privilegio, un esperienza molto più profonda e intima del sesso… Un’unione su un piano inimmaginabile.
Normalmente fra pubblico e performer c’è un tacito accordo: si prende per vero ciò che si vede sulla scena nonostante sia chiaro a tutti che il teatro è finzione. Possiamo dunque dire che il consenso sia alla base del teatro. Che peso ha per te che gli spettatori, che tu definisci “parte del rituale”, siano consenzienti?
Credo che la cosa riguardi solamente me: dopo la performance, anche se solo per pochi istanti, non mi sento solo. Non mangio, non dormo e non comunico con nessuno, passo semplicemente i miei ultimi momenti con Elu. Mi sento anche estremamente in colpa o dubbioso a riguardo, a volte mi chiedo cosa stia facendo, e i rimorsi divorano il mio corpo e la mia mente: quando succede mi lascio divorare, mi affido al loro effetto purificatore. Non chiedo mai alle persone che cosa pensino riguardo al mio lavoro, né ascolto particolarmente le loro interpretazioni. Vale anche per questa intervista: sono estremamente grato che tu scriva su Put Your Heart Under Your Feet… And Walk!, ma non lo stai facendo per me. Anzi, probabilmente non leggerò mai l’articolo, sento di non averne il diritto.
Anche se mi ha ricordato moltissimo i rituali descritti da Aleister Crowley, l’unico rituale ancora in voga che preveda l’ingerimento delle ceneri dei propri cari defunti si trova tra gli Yanomami, delle piccole tribù indigene della Foresta amazzonica. Usano anche moltissime decorazioni e body painting: li hai usati come fonte di ispirazione?
No, nella stesura del lavoro non mi sono ispirato ad alcuna cultura che pratichi l’endocannibalismo, anche se so che ce ne sono parecchie. Non conosco particolarmente bene Aleister Crowley, ho solo presente il suo nome e la sua pessima reputazione. Questo lavoro non è ispirato a nulla di esterno a me, è la mia risposta animalista a una perdita alla quale è impossibile sopravvivere. Ho solo fatto ciò che sentivo di dover fare, e sì, l’ho coperto con il velo dell’arte contemporanea: avevo paura che, se il mio rituale fosse stato esplicito, avrebbe potuto spaventare perfino Dio.
In Remediation: Understanding New Media Jay David Bolter e Richard Grusin definiscono il processo secondo il quale i nuovi media rielaborano le caratteristiche dei precedenti. Generalmente questo processo è descritto in relazione al passaggio tra analogico e digitale (si dice per esempio che la pagina di un sito web “ri-medi” la carta stampata). Pensi che debba succedere qualcosa di analogo in campo spirituale?
Io sento semplicemente di camminare: camminare instancabilmente, camminare sotto la pressione di un peso enorme, camminare con il cuore in pezzi, camminare con nelle orecchie un suono insopportabile. Ma non è solo camminare, è anche danza, è umanità nella sua forma più evoluta, è epico, è sublime. Muoversi sotto il peso del dolore è un miracolo: appena avevo subìto la perdita riuscivo a malapena a respirare. Poi mi sono sentito come morto anch’io: è come se il mio fantasma si fosse messo al lavoro per offrire un omaggio a Elu, perché dopo tutta la vitalità che ho attinto da lui non ho potuto impedire la sua morte. Cercalo su YouTube [Elu Kieser, N.d.R.], vedrai che è un angelo: irrilevante, non preso sul serio, sottovalutato, eppure nulla l’ha fermato. Considera che il lavoro è su di lui, non su di me: ogni dettaglio potente e carico di significato mi è stato donato da lui e mi ha aiutato a sopravvivere a me stesso, io ho solo “vestito” il lavoro con gusto e poesia. Ma Elu è il suo fuoco e io le ceneri.
Immagino che il tuo lavoro sia anche stato parecchio criticato: ti feriscono i giudizi negativi?
Non leggo mai la critica e generalmente non concedo interviste su questo lavoro, ma sono così innamorato dell’Italia e di Milano, della generosità dei suoi abitanti, dal fascino della sua architettura e dall’arte della vita che mi sono sentito in dovere di risponderti. Tuttavia non mi sento in grado di fornire le spiegazioni che la critica cerca, né sento di potermi giustificare per quello che ho fatto: io ho dato il mio lavoro e questo è tutto. Tutto ciò in cui credo è lì dentro: l’amore sopravvive alla vita. Credo che il pubblico lo possa capire meglio di me. Io ho affrontato questo lavoro come un vero e proprio salto nel vuoto, il più folle della mia vita: se ci avessi pensato prima, probabilmente non avrei saltato. Sono un codardo dopotutto, è così che sono sopravvissuto. Lascio al pubblico il senso di quello che ho fatto, tengo per me soltanto la sensazione.
‒ Giada Vailati
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