Il teatro in musica americano conquista Roma
Due spettacoli andati in scena a Roma hanno riportato l’attenzione sui dettami del teatro in musica americano.
Mentre vige ancora l’immagine di una Roma “che non vo’ fà la stupida stasera”, a base di stornelli e mandolini, la città è, con Parigi e Berlino, una delle tre capitali europee della musica contemporanea: uno dei maggiori esperti internazionali, Suguru Agata, segretario generale del Japan Electronic Keyboard Society , è venuto anni fa a studiare nei vicoletti del centro storico come si fa live electronics e ne ha portato i risultati all’Università della Musica di Showa perché siano inclusi nell’Open Research Project sulle nuove tecniche di musica elettronica e di elettro-acustica. A Roma ha sede Nuova Consonanza, la maggiore associazione di musica contemporanea italiana, che da cinquantacinque anni assicura ogni anno un festival di portata internazionale. Altri festival importanti sono il Romaeuropa Festival e l’Enufest (che attira specialisti di musica elettronica e di elettroacustica da tutto il mondo). Ci sono poi i ricchi programmi contemporanei di Musica per Roma al Parco delle Musica, per non contare le attività in questo campo di numerosi istituti di cultura stranieri, particolarmente attivi quelli di Francia e Germania. Si suonano in pubblico più ore di musica contemporanea a Roma che a Berlino. In questo contesto, si deve porre anche la svolta della stessa stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Nelle ultime settimane, ci sono state due importanti “prime” di teatro in musica americano: le prima per l’Italia di The Gospel According to the Other Mary di John Adams, coprodotta dall’Accademia di Santa Cecilia e dal Romaeuropa Festival, e la prima romana di Trouble in Tahiti di Leonard Bernstein come spettacolo inaugurale della 55essima edizione del Festival annuale di Nuova Consonanza. The Gospel è lavoro recente. Trouble risale all’inizio degli Anni Cinquanta. Insieme consentono di vedere l’evoluzione dell’opera negli Stati Uniti. Di The Gospel ci sono state tre applauditissime rappresentazioni, dal 2 al 4 novembre, nella Sala Santa Cecilia (3mila posti); l’inaugurazione del Festival di Nuova Consonanza ha avuto invece luogo l’11 Novembre al Teatro Palladium.
THE GOSPEL ACCORDING TO THE OTHER MARY
The Gospel è la seconda delle due grandi opere-oratorio dedicate da John Adams e dal suo librettista preferito, il regista e scrittore Peter Sellars, alle Sacre Scritture. La prima, El Niño, riguardava la Natività. Questa seconda i miracoli (in particolare la risurrezione di Lazzaro) e la Passione. Al pari di El Niño, si presta sia alla esecuzione concertistica che alla messa in scena come opera lirica o dramma in musica; The Gospel ha debuttato in forma di concerto a Los Angeles nel 2012, ma è stato già rappresentato come opera, oltre che nella stessa Los Angeles, a New York, Bonn e in altre città.
Il Vangelo visto e interpretato da Maria Maddalena (the Other Mary) si svolge tra poveri e disadattati di tutti i tempi. Il testo fonde, molto bene e molto acutamente, testi del Vecchio e del Nuovo Testamento con brani della giornalista e scrittrice cattolica Dorothy Day, lo scrittore afroamericano June Jordan, le poetesse Rosario Castellanos e Louise Erdrich, la benedettina Hildegarde von Bingen, lo scrittore Primo Levi e il giornalista Ruben Dario. La combinazione dei vari autori è perfetta e rende il messaggio evangelico attuale ed eloquente.
Adams, che ha diretto i complessi ceciliani, è gradualmente diventato un minimalista, un eclettico che, su un tappeto di poche note e pochi accordi, costruisce una sintesi di differenti stilemi, includendo anche richiami alla musica etnica di vari continenti. In The Gospel, un coro imponente e un’orchestra quasi mahleriana (in cui agli strumenti convenzionali si aggiungono un ensemble di percussioni – che comprende la grancassa, il tamburo giapponese, il tom-tom, il tam-tam, il gong e i campanacci, i cimbali e il basso elettrico). Ne risultano sonorità altamente drammatiche (segnatamente, nella risurrezione di Lazzaro e in vari momenti della Passione) e una luminosità lucente nel finale: Adams ha una lunga esperienza di sinfonismo, la si avverte negli interludi, ora delicati e melodici ora fortemente drammatici, che collegano una scena all’altra. I momenti più squisitamente teatrali del lavoro si imperniano su un narratore a cui danno voce tre controtenori (Daniel Bubeck, Brian Cummings e Nathan Medley) e tre personaggi, Maria Maddalena che incarna la pietà (il mezzosoprano Kelley O’Connor), sua sorella Marta (il pragmatismo, il contralto Elisabeth DeShong) e Lazzaro (il tenore wagneriano Jay Hunter Morris). Il lavoro è stato composto avendo, in gran misura, le loro voci o voci molto simili alle loro, in mente. Cinque dei sette interpreti hanno seguito l’oratorio sin dalla prima esecuzione.
TROUBLE IN TAHITI
La produzione di Trouble in Tahiti, un breve atto unico formato da un preludio e sette scene è in collaborazione con Opera InCanto e l’Universià di Roma Tre, Teatro Palladium. Le intenzioni di Bernstein erano quelle di mettere alla berlina il sogno americano della middle class negli agglomerati suburbani del suo tempo, prendendo spunto da una coppia in crisi dopo dieci anni di matrimonio. Una metafora dell’incomunicabilità: pur di non dover affrontare i silenzi di una serata in cui non sanno più cosa dirsi, i coniugi fuggono la realtà chiudendosi in un cinematografo e lasciandosi trasportare dalle fasulle vicende romantiche proiettate sullo schermo. E, al tempo stesso, vige una severa critica alla società del secondo dopoguerra, dove, da un lato, la pursuit of happiness (prevista nel primo articolo della Costituzione americana) pare raggiunta ma, dall’altro, la guerra fredda e il maccartismo provocano tensioni e perplessità. Il libretto è dedicato a Marc Blitzsteun, amico di Bernstein e noto – si direbbe oggi – come “intellettuale di sinistra”.
Il compositore evita accuratamente gli stilemi dell’opera italiana o tedesca tradizionale. E questo è evidente: songs e l’unico duetto sono tipici del teatro musicale americano e l’orchestrazione ha sapori e colori jazzistici. L’orchestra è composta principalmente da fiati, ottoni e percussioni. Molto curato, e molto astuto, il contrappunto. Mentre sulla scena si svolge una vera e propria tragedia della incomunicabilità tra la coppia “realizzata” nella sua ascesa sociale ma inaridita nei rapporti tra coniugi e tra essi e il proprio figlio, un trio jazz (soprano tenore e baritoni) commenta, inneggiando alla “felicità” dei suburbs dove vive la classe medio-alta degli Stati Uniti. Trouble in Tahiti va contestualizzato nella cultura musicale americana degli Anni Cinquanta. Allora era piena di innovazioni, più vicina quasi a Treemonisha di Scott Joplin che a Porgy and Bess di George Gershwin. Ebbe un’influenza significativa sullo sviluppo successivo dell’opera americana. Ancora oggi, è, al tempo stesso, gradevole e drammatica nel suo ritratto sarcastico della tragedia della felicità.
La produzione, realizzata con estrema economia di mezzi, è molto buona anche se (ma pochi lo hanno colto) il lavoro richiederebbe interpreti americani e con le flessioni linguistiche di New York. Eccellenti anche nella pronuncia il trio (Lucia Filaci, Carlo Putelli e Luca Bruno. Molto buona Dinha, la moglie (Chiara Osella). Lasciava a desiderare Sam, il marito (Dario Ciotoli), che poco aveva, non solo nella dizione (di difficile comprensione) ma anche nell’abito, e nella barba, poco consoni a un trentacinquenne borghese americano, degli Anni Cinquanta.
Efficace la regia e piacevoli le proiezioni. Di grande livello l’Ensemble InCanto, diretto da Fabio Maestri.
‒ Giuseppe Pennisi
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