Il ritorno di Kinkaleri. Al Centro Pecci di Prato
Ritorna al Festival Contemporanea del Centro Pecci di Prato il lavoro forse più innovativo e rappresentativo della compagnia Kinkaleri,
In un Paese normale questo ritorno sarebbe celebrato fra gli eventi di danza più importanti dell’anno. In un Paese normale ritroveremmo di frequente, all’interno della programmazione dei nostri teatri, il lavoro immaginifico e rigoroso di Kinkaleri. In un Paese normale l’ignoranza per la performance non verrebbe mascherata, da troppo compiaciuti e superstiziosi programmatori, con il richiamo alla dittatura degli abbonamenti. Il coraggio, in fondo, è anche un po’ la misura della propria competenza. Il rischio, invece, della propria lungimiranza.
L’avvio è tra i più belli di sempre. Un corpo appena comparso e al suo primo passo inciampa e cade sulla scena. Resta un tempo disteso in quel nulla di delusione, poi si alza e se ne va. Rewind di un’azione incapace di compiersi perché continuamente disinnescata da ciò che, fin già dal titolo, si riavvolge, riparte, ritorna, si ripete nella sua variazione. Otto per otto infatti fa sempre otto, se la preposizione spaziale intende non moltiplicare ma bidirezionare la lettura del titolo. Avanti e indietro, all’infinito. Come nel vuoto iniziale della scena che poi continuamente si riempie, di passi e di oggetti. Tutto prende forma affinché la scena stessa sia messa in movimento nel suo destino di sparizione e ritorno. E verrebbe subito da dire che questa danza è concettuale solo per chi non ha la pazienza di capirla. Che è elitaria solo per chi soffre di ansia da prestazione. Che non ha pubblico solo per chi crede di poterglisi sostituire. Che è difficile ma solo agli infelici. E che non si tratta di danza: sono, questi ultimi, i fiscalisti dell’ordine e dei confini della scena che non hanno mai veramente iniziato a studiare.
L’INCIAMPO
Lungi dal corrispondere alle mode ultime dei rifacimenti, Kinkaleri hanno rifatto
GLI INTERPRETI
Certo, non tutto funziona nuovamente: restano un po’ fané il killeraggio della bambolina esotica, il nastro tirato a terra per segnare consuete traiettorie architettoniche e l’eterno microfono in scena come oggetto di culto più che di amplificazione con la poesiola declamata, bellamente zoppicante.
Nella serata a sorpresa, in cui gli interpreti di allora hanno ripreso lo spazio della loro memoria, tutto è sembrato intatto, forse anche potenziato dalla distanza del tempo e consacrato da una generativa, palpabilissima, per niente svagata, leggerezza.
Marco Mazzoni, divertito e felicemente compiaciuto nelle uscite a passo svelto delle sue diagonali, con inedita foga ha divorato noncurante il consueto panino o la birra dei nostri desideri (lui la pretende, in scena, gelata), come a voler assumere una concretezza materiale infinitamente più efficace di ogni discorso. Cristina (per una sera pre-Kristal) Rizzo particolarmente determinata e libera nel mood da disco music in alcune proverbiali scene e iconici gesti, e incredibilmente puntuale nei suoi tours en manège, fisicamente sempre nel suo centro e ormai interprete senza tempo. Mentre proprio il tempo, per Luca Camilletti non ha fatto altro che intensificare l’ironia di ghiaccio, la presenza indisponibile a ogni richiesta che alla fine non può che risultare insieme timida e tragica (Matteo Bambi, unico assente giustificato è stato ospitato, per questa unica serata, dal corpo di Mirco Orciatici).
IL SISTEMA ITALIANO
Ma dov’erano tutti? I battaglieri difensori della danza d’autore? I coraggiosi capitani della “coreografia innovativa”? Le amazzoni di una scuola italiana della danza pre-post-contemporanea? Le valchirie del reeenactment a tutti i costi e prezzi, puntualmente da riscuotere? Con questo semplice e tutto affettivo (non museale, non trafficato, non ribassato) passaggio al Festival Contemporanea del Centro Pecci di Prato, i Kinkaleri hanno fatto saltare tutte le ideologie imperanti nel sistema danza italiano dell’attuale corsa al profitto di uno spazio di visibilità, da conquistare magari a prezzo di sempre nuovi-nuovi da proporre e abbandonare il giorno dopo: con questa coraggiosa operazione di ritorno sul repertorio, di rivendicazione di una storia che è già nel futuro, di un evento ancora stracarico e straricco di idee e pensate, in fondo ci ammoniscono che non basta esibire un logo, vendere un marchio o sigillare una rete, per legittimare grandi ambizioni quando le idee partorite restano poi piccoline.
‒ Stefano Tomassini
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