Il ritorno di Kinkaleri. Al Centro Pecci di Prato

Ritorna al Festival Contemporanea del Centro Pecci di Prato il lavoro forse più innovativo e rappresentativo della compagnia Kinkaleri, 2003-2018, con nuovi giovani performer perfettamente all’altezza e una sola serata, a sorpresa, con (quasi) tutti gli storici interpreti.

In un Paese normale questo ritorno sarebbe celebrato fra gli eventi di danza più importanti dell’anno. In un Paese normale ritroveremmo di frequente, all’interno della programmazione dei nostri teatri, il lavoro immaginifico e rigoroso di Kinkaleri. In un Paese normale l’ignoranza per la performance non verrebbe mascherata, da troppo compiaciuti e superstiziosi programmatori, con il richiamo alla dittatura degli abbonamenti. Il coraggio, in fondo, è anche un po’ la misura della propria competenza. Il rischio, invece, della propria lungimiranza.
L’avvio è tra i più belli di sempre. Un corpo appena comparso e al suo primo passo inciampa e cade sulla scena. Resta un tempo disteso in quel nulla di delusione, poi si alza e se ne va. Rewind di un’azione incapace di compiersi perché continuamente disinnescata da ciò che, fin già dal titolo, si riavvolge, riparte, ritorna, si ripete nella sua variazione. Otto per otto infatti fa sempre otto, se la preposizione spaziale intende non moltiplicare ma bidirezionare la lettura del titolo. Avanti e indietro, all’infinito. Come nel vuoto iniziale della scena che poi continuamente si riempie, di passi e di oggetti. Tutto prende forma affinché la scena stessa sia messa in movimento nel suo destino di sparizione e ritorno. E verrebbe subito da dire che questa danza è concettuale solo per chi non ha la pazienza di capirla. Che è elitaria solo per chi soffre di ansia da prestazione. Che non ha pubblico solo per chi crede di poterglisi sostituire. Che è difficile ma solo agli infelici. E che non si tratta di danza: sono, questi ultimi, i fiscalisti dell’ordine e dei confini della scena che non hanno mai veramente iniziato a studiare.

L’INCIAMPO

Lungi dal corrispondere alle mode ultime dei rifacimenti, Kinkaleri hanno rifatto (Premio Ubu 2002) dopo quindici anni dal suo debutto, con nuovi interpreti tutti all’altezza (Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici), giusto per non perdersi di vista. Spesso letta come una performance della caduta e della rottura, in questa potenziale sua nuova vita rivela non solo una insospettata ricerca di connessione (e necessità di relazione) con il pubblico, ma anche nuovi bersagli, che non sono più (soltanto) la rappresentazione o il linguaggio, ma la fissazione sull’apparenza, sull’esteriorità, sulla ratifica dell’autentico, sull’apologia della mercanzia, insomma sull’essenza totalitaria del nostro Occidente. La figura principe allora qui è quella dell’inciampo: “Lo spavento di un piede che inciampa in un corpo”, come scrive, in una sua short novel, Samuel Beckett (Una sera, 1980). Qui tutto inciampa, anche lo sguardo, come nella prima lettera di Pietro: la materia scartata dai costruttori diventa sasso di inciampo e pietra di scandalo (1 Pt 2,4-9). Dunque mantiene, pur nella celebrazione del suo ritorno, uno sguardo politico sul corpo. Non trasgredisce ma costruisce, già oltre la caduta. L’inciampo è una forma della verità che si mostra attraverso l’errore, e in tutta la sua fragilità. È un tempo sospeso e di resistenza, di disinnesco riflessivo e non di resa alla legge di gravità. Per questo doveva essere restituito alle scene del teatro di oggi. L’azione in mette continuamente alla prova la scena con l’impossibilita di qualsiasi azione, da qui il comico anche trattenuto e sobrio quando non più piacione e preavvertito, per provocare la fine, ininterrottamente ma senza poterci credere. Non c’è apocalisse: tutto è salvo, perché la fine non ammette inciampi. La fine si prende sempre troppo sul serio.

Kinkaleri, OTTO, 2018. Photo courtesy Kinkaleri

Kinkaleri, OTTO, 2018. Photo courtesy Kinkaleri

GLI INTERPRETI

Certo, non tutto funziona nuovamente: restano un po’ fané il killeraggio della bambolina esotica, il nastro tirato a terra per segnare consuete traiettorie architettoniche e l’eterno microfono in scena come oggetto di culto più che di amplificazione con la poesiola declamata, bellamente zoppicante.
Nella serata a sorpresa, in cui gli interpreti di allora hanno ripreso lo spazio della loro memoria, tutto è sembrato intatto, forse anche potenziato dalla distanza del tempo e consacrato da una generativa, palpabilissima, per niente svagata, leggerezza.
Marco Mazzoni, divertito e felicemente compiaciuto nelle uscite a passo svelto delle sue diagonali, con inedita foga ha divorato noncurante il consueto panino o la birra dei nostri desideri (lui la pretende, in scena, gelata), come a voler assumere una concretezza materiale infinitamente più efficace di ogni discorso. Cristina (per una sera pre-Kristal) Rizzo particolarmente determinata e libera nel mood da disco music in alcune proverbiali scene e iconici gesti, e incredibilmente puntuale nei suoi tours en manège, fisicamente sempre nel suo centro e ormai interprete senza tempo. Mentre proprio il tempo, per Luca Camilletti non ha fatto altro che intensificare l’ironia di ghiaccio, la presenza indisponibile a ogni richiesta che alla fine non può che risultare insieme timida e tragica (Matteo Bambi, unico assente giustificato è stato ospitato, per questa unica serata, dal corpo di Mirco Orciatici).

Kinkaleri, OTTO, 2018. Photo OKNO studio

Kinkaleri, OTTO, 2018. Photo OKNO studio

IL SISTEMA ITALIANO

Ma dov’erano tutti? I battaglieri difensori della danza d’autore? I coraggiosi capitani della “coreografia innovativa”? Le amazzoni di una scuola italiana della danza pre-post-contemporanea? Le valchirie del reeenactment a tutti i costi e prezzi, puntualmente da riscuotere? Con questo semplice e tutto affettivo (non museale, non trafficato, non ribassato) passaggio al Festival Contemporanea del Centro Pecci di Prato, i Kinkaleri hanno fatto saltare tutte le ideologie imperanti nel sistema danza italiano dell’attuale corsa al profitto di uno spazio di visibilità, da conquistare magari a prezzo di sempre nuovi-nuovi da proporre e abbandonare il giorno dopo: con questa coraggiosa operazione di ritorno sul repertorio, di rivendicazione di una storia che è già nel futuro, di un evento ancora stracarico e straricco di idee e pensate, in fondo ci ammoniscono che non basta esibire un logo, vendere un marchio o sigillare una rete, per legittimare grandi ambizioni quando le idee partorite restano poi piccoline.

Stefano Tomassini

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Tomassini

Stefano Tomassini

Stefano Tomassini insegna Coreografia (studi, pratiche, estetiche), Drammaturgia (forme e pratiche) e Teorie della performance all’Università IUAV di Venezia. Si è occupato di Enzo Cosimi, degli scritti coreosofici di Aurel M. Milloss, di Ted Shawn e di librettistica per la…

Scopri di più