La linea del tempo della Batsheva Dance Company
Presentata in esclusiva nazionale a Ferrara, “Last Work”, creazione di Ohad Naharin, esplora il movimento come l’espressione più umana e commovente delle arti dello spettacolo. In lontananza una donna corre su un tapis roulant. La sua corsa senza sosta traccia la linea del tempo, della storia che si ripete.
La corsa ininterrotta della donna segna, forse, lo scorrere del tempo. Sta fuggendo da qualcosa o da qualcuno, o, invece, sta correndo verso qualcosa o qualcuno? Per tutta la durata dello spettacolo, 65 minuti, la donna vestita di blu che corre da ferma sul lungo tapis roulant, disposto orizzontalmente in fondo alla scena, non si fermerà un solo istante. Soltanto verso il finale, quando un uomo le passerà di mano una sventolante bandiera bianca. Segno di resa? Da chi? O una richiesta d’aiuto? A chi? Sorgono queste e altre domande alla fine di Last Work di Ohad Naharin per i magnifici danzatori della Batsheva Dance Company. Anche se rimarranno domande senza risposte, e senza necessariamente voler ricercare dei significati, questo non ci avrà impedito di provare intense emozioni e di cogliere dei forti contenuti assistendo allo spettacolo, ospitato, con teatro sold out, al Comunale Claudio Abbado di Ferrara.
Creato nel 2015, a dispetto del titolo Last Work non è l’“ultimo lavoro” del coreografo israeliano. Direttore artistico dal 1990 e sino a ieri, è oggi coreografo residente esclusivo della compagnia di Tel Aviv tra le più acclamate al mondo, con la quale, nel corso degli anni, ha sviluppato una filosofia di allenamento, il Gaga, tesa a liberare l’energia creativa dei ballerini e la consapevolezza del proprio corpo. E in scena si vede.
I MOVIMENTI
Last Work si apre nel vasto spazio vuoto delimitato solo da grigie quinte laterali. Da qui escono e rientrano i danzatori in pantaloncini e magliette colorate, inizialmente in brevi assoli, e via via a formare duetti e raggruppamenti con torsioni, accelerazioni e improvvise immobilità. Il primo ad apparire agisce su una sola gamba, ondeggiando sempre più velocemente tutto il corpo. La donna che subentra ha intense posture e braccia protese in avanti. Subito altri assoli. Seguono assembramenti di tutto l’ensemble, con rannicchiamenti rasoterra e ampie falcate; con avanzamenti a mezze punte, braccia alzate, distorsioni repentine, mani strette tutte attorno a un performer, quindi liberate. Quando tutti cadono a terra, tre di loro, come sopravvissuti a una deflagrazione, si alzano, curvano, corrono. Sulle note di un canto Yiddish, di nuovo tutti giù, carponi, muovendo braccia e gambe all’insù, come arbusti al vento. Brusco cambio di musica e tutti di corsa verso il tapis roulant. Si spogliano cambiando abiti. Le donne di bianco, gli uomini con lunghe tuniche nere. Seduti, a turno si alzano officiando con gesti lenti dei riti con due incappucciati davanti a un corpo a terra. Mentre una coppia simula un rapporto sessuale, altri sembrano feti nel grembo materno; altri a guardare una sorta di brutalizzazione interrotta dall’arrivo di una ballerina in tutù, quasi un cigno agonizzante; quindi tutti con maschere da scherma. Appena tolte, il gruppo riprende la frontalità schierato in posture da uccelli e da ingranaggio meccanico, stringendosi uno dietro all’altro fino a esplodere come schegge impazzite al subentrare improvviso di una musica techno, martellante e sempre più selvaggia (del compositore tedesco Grischa Lichtenberger).
UNA DANZA BRUCIANTE
L’ulteriore cambio d’atmosfera scatena una frenesia tra lampeggiare di luci e paillettes sparate da un kalashnikov dopo che l’uomo, prima apparso di schiena occupato a lucidare la sua arma, avanzerà esaltato in proscenio. Nel frattempo, accanto a lui e alla donna in corsa, si sarà accostato un uomo con una bandiera bianca e un altro intento a tessere col fil di ferro una sorta di rifugio. Toccherà a questi, infine, il gran, emblematico finale legando con del lunghissimo nastro adesivo tutti i danzatori disseminati, e immobili, su tutta la scena. Per dirci, forse, che siamo tutti intimamente legati gli uni agli altri, perché, che lo vogliamo o no, in tutti scorre lo stesso sangue color rosso. Naharin non rivendica programmaticamente alcun assunto ideologico, ma, per la storica e costante tensione tra israeliani e palestinesi, potremmo essere autorizzati a interpretare come simbolici gli elementi artistici che affiorano, in diverse sequenze, nella pièce. Al di là dei significati politici, sociali, o di altra natura che Naharin non intende esplicitare, a incantarci è la bellezza della sua danza bruciante e contemplativa, che scaturisce da dinamiche contrastanti, da movimenti lenti, veloci, ampi, piccoli, fluidi, statici, in un mix crescente ricco nell’immaginazione e trascinante nello stile.
‒ Giuseppe Distefano
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