Danza. L’amore in transizione secondo Enzo Cosimi
Con “I love my sister”, presentato al Cassero di Bologna, all’interno del programma di Gender Bender Festival, il coreografo romano Enzo Cosimi riflette sull’invisibilità dei corpi transessuali e trasforma una difficile confessione in una forte rivendicazione di militanza.
Dalla passione per i cavalli a una rovinosa caduta; dalla vita di due figli alla decisione di una transizione FtoM (Female to Male), in mezzo cantando amatissime opere barocche, così il performer Egon Botteghi racconta, insieme al coreografo Enzo Cosimi che lo ha diretto magistralmente in I love my sister, questa difficile sorella interiore. “Mi ricordo una delle prime cose che gli ho detto, all’inizio del lavoro: ti voglio donna, parlando di questa sua prima vita, e intendendo la sorella dentro di lui”: così il coreografo. E infatti il bellissimo titolo è già una geniale trouvaille, indica l’assente e la sua genesi. La prima vita che ha condotto Botteghi a desiderarne una nuova, ora in una sua più necessaria visibilità. E a partire dal racconto dei bellissimi capelli della sorella, che in un delirio onirico diventano per lui un albero, ossia figura del possibile cambiamento, fino al climax della forma del compimento nella ricchezza cromatica dell’arcobaleno.
AMORE E BELLEZZA
Enzo Cosimi è da sempre alla ricerca di nascoste realtà del mondo queer, “che pagano il peso di un’invisibilità inflitta che relega ai margini le loro storie”, come egli stesso scrive. Storie da scoprire e raccontare come già il mondo degli omosessuali anziani, ma secondo le modalità a lui più corrispondenti. Ossia, nell’esaltazione piena di amore e di bellezza, senza gerarchie, e nella restituzione di una certa regalità. Non la mera realtà esibita come merce agli sguardi degli astanti, ma la trasfigurazione poetica di un mondo che improvvisamente, nel contrappunto della scena, ci appare come un dono e prende spazio.
E quanti anni luce distanti siamo qui da quell’esile Calore, oggi celebratissimo remake di un lavoro lontanissimo di Cosimi (1982-2012), tanto caro ai cultori delle “mode senza tempo” attraverso cui soltanto si autolegittimano, ma dopo il quale il coreografo romano ha prodotto opere assai più importanti e significative (come I need more o Hell… Yeah!, per non citare proprio gli ultimi capolavori: Estasi e Corpus Hominis) che la critica non è stata quasi mai capace di afferrare. Il conto, con questo incredibile coreografo, in Italia, potrebbe intanto in parte saldarsi con un meritatissimo Leone d’oro alla carriera.
LA PERFORMANCE
Il pubblico è accolto nello spazio del Cassero da immagini video di cavalli: Egon Botteghi ha lavorato per dodici anni in un maneggio e in essi riconosce un forte ideale di libertà. Poi il setting cambia: è leitmotiv continuo della performance questo cambiare e ricambiare disposizioni alle luci, alle proiezioni e ai cavalletti (da un inedito “servo di scena”, Stefano Galanti, che appare e scompare). Anche la costruzione dell’immagine, sempre molto vigilata da Enzo Cosimi, è costituita essenzialmente da una strutturale mobilità. È la scena della performance che è già sempre in transizione.
Poi, mentre Egon si veste (da donna), attraversa con le parole un testo denso e rarefatto in cui racconta la sua vita: frammenti di scene, non senza ironie, ad esempio sul rapporto con i figli che hanno accompagnato, anche divertiti, la sua transessualità. Non manca il gesto del truccarsi, dal vivo e ripreso dal video, e il radersi, come due azioni realistiche potenziate nel contrappunto temporale della doppia visione. Poi il performer si presenta al pubblico, rompendo ogni divisione tra spazio della performance e platea. È una vera e propria chiacchierata spontanea, una confessione piena di humor e di visioni che si conclude con un lancio della parrucca che Egon indossa. Inizia lo smascheramento: solo in video assistiamo a un’iniezione di testosterone, quasi nel silenzio e assolutamente senza retorica alcuna. Mentre il performer dal vivo si osserva e si adagia in una sorta di torpore che non è mai perdita di sé. Il punto più alto e gioioso di questa sottintesa transizione coincide con il canto liberatorio di un’aria dall’oratorio San Giovanni Battista di Alessandro Stradella: Io per me non cangerei. Egon cantava nel registro di soprano: ora che la voce è cambiata, la gioia di vivere in pieno questo doppio, “per meglio raggiungere l’uno”, come scriveva Jean-Loup Charvet nel suo studio La voce delle passioni (2003), restituisce a ogni sovversione dell’identità l’esperienza della vita e della libertà politica. Non vi può essere maggior compimento di questa serena e vitale esposizione.
IO NON SONO UN MOSTRO
Non mancano infine momenti più privati, come il racconto fuori campo della madre, la sua sofferenza e la difficile, ma alla fine serena, accettazione. La presenza delle ombre in una danza in slow motion mentre Egon ascolta in cuffia una musica techno; la (quasi) nudità esposta alla fine, accompagnata da una arringa al pubblico, che ora si trasforma in un coro partecipe, sull’autodeterminazione che non deve chiedere legittimazione a nessuno.
Questo continuo fare e rifare il setting della confessione coincide con l’idea di montaggio come contesto effimero e gratuito: quello del dono. Ed è in fondo il modo più giusto, per Cosimi, di celebrare questa messa laica della bellezza, fatta anche di semplici camminate o del solo restare a margine della scena, ma in piena presenza. Per trasformare questa (come ogni) storia di sofferenza, in una forte rivendicazione di militanza. Proprio come nelle parole finali di Egon, che citano Judith Butler: “Io non sono un mostro | io non sono un caso umano | io sono e basta”.
‒ Stefano Tomassini
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