Danza al museo. Intervista a Camilla Monga
La coreografa e ballerina Camilla Monga descrive il suo rapporto con la danza e lo spettacolo che ha varcato le soglie del museo. Dialogando con l’arte contemporanea.
Ha debuttato a Theatre Art Verona in ottobre. Poi Duetto in ascolto è passato dal Mart di Rovereto e presto andrà alla Triennale di Milano.
Il lavoro firmato dalla coreografa e danzatrice Camilla Monga (1987) insieme al compositore Zeno Baldi fa del dialogo tra musica e danza un inscindibile progetto unitario, fin nella sua primordiale fase creativa. “La danza, quando è legatissima alla musica, è molto interessante e in questo contesto mi sento veramente sola”, ci spiega Camilla con una pratica didattica sempre più utile a facilitare la comprensione della danza concettuale.
È quasi un trio più che un duetto?
È importante trovare i collaboratori che rispettano l’idea e la valorizzano. Il light designer Alessio Guerra, con il suo impianto luci, ha esaltato il concetto e lo spazio. Cosa rara e preziosa.
Da quale nucleo è iniziato il processo creativo?
Si è cercata la giusta associazione tra la danza e la musica di Zeno. A me interessava tradurre la sua idea compositiva in movimento. Abbiamo lavorato sul processo di accumulazione, si tratta di utilizzare tante frasi musicali che mantengono la stessa impostazione ma generano una evoluzione, perché via via si sostituiscono alcune sonorità con altre: un cambiamento percepito in modo graduale. Per la danza l’accumulazione è la ripetizione di un movimento, anche molto semplice, anche solo di un gesto, che poi si ripete attraverso altre articolazioni e parti del corpo per dare un effetto ipnotico non lineare, ma che porta a goderne dello sviluppo. Attraverso la musica questo sviluppo produce atmosfere diverse e le immagini generate si ri-materializzano nel corpo.
Gli specchi che si inarcano alle tue spalle danno origine a una gerarchia di sguardi incorniciando nell’artificio la costruzione materica e viva del tuo corpo.
È solamente un ampliamento di questo concetto a livello scenografico. Quello che si fa attraverso il movimento sono le ripetizioni che grazie allo specchio possono essere trasportate in prospettive diverse. Da una postura gli specchi ne riflettono altre quattro ma in posizioni diverse, creando un gioco ipnotico esteso dalla musica e dal corpo a livello scenografico. Sono specchi che non si limitano a specchiare, ma hanno un effetto deformante.
Guardandoti negli specchi deformati, cosa scegli tra lo sguardo attivo dello spettatore e il tuo, rimandato dallo specchio?
Quello dello spettatore. Perché poi lo spettatore non ha una sola via prospettica. È frontale come in tutti i teatri, però ha la possibilità di vedere lo spettacolo riflesso da questi specchi e da punti di vista diversi. Inoltre il pubblico stesso si riflette, in un gioco, in una illusione ottica.
Lo specchio restituisce una paradossale tridimensionalità al tuo movimento. È come lo sguardo del fotografo che dispiega il tuo corpo mostrando una superficie a te sconosciuta.
Io ho pensato a un movimento bidimensionale che si ripete come un palindromo. I movimenti sono coerenti con l’effetto ipnotico, però lo stesso movimento viene ripetuto in tutte le direzioni dello spazio. Dalla bidimensionalità si evade anche con il gioco degli specchi che fanno emergere dettagli che solo attraverso la bidimensionalità non si vedrebbero.
Il nucleo astratto e concettuale del lavoro può essere quell’idea sempre a rischio di essere copiata. Come evitare la ripetizione di un modulo creativo?
Penso che copiare uno spettacolo di danza sia molto difficile, se non a volte impossibile. Dell’idea si possono individuare delle copie. Molti hanno lavorato sull’idea di palindromo, Anne Teresa De Keersmaeker, Trisha Brown, ad esempio, hanno creato sul principio di accumulazione, però i metodi utilizzati in questo caso sono totalmente diversi. Si lavora a quel seme e a quell’idea per darne una evoluzione con i mezzi attuali. Forse oggi è più facile copiare dei contenuti di un progetto, meno astratti e meno rivolti alla drammaturgia intesa come struttura coreografica. Oppure copiare una sequenza di passi e portarli in un’altra coreografia.
Il tuo lavoro è stato al Mart e andrà anche alla Triennale. I musei sono il luogo ideale per un altro riflesso e rimando all’arte?
Musei d’arte contemporanea e spazi espositivi per l’arte visiva in generale sono luoghi freddi, che hanno bisogno di essere vissuti con creazioni coreografiche, ma solo se connesse con determinati spazi e contesti, arricchiscono e valorizzano quel luogo. Sono contraria alla danza in un museo senza un pensiero che la sostenga. Il mio lavoro al Mart ha dialogato con una stanza dedicata a Sol LeWitt: una scatola bianca con delle serigrafie minimali incise sulle pareti bianche.
Prossime tappe?
Il 14 marzo al Teatro Grande di Brescia. Poi ci sarà Bolzano Danza con un progetto nuovo di coreografia sul jazz.
‒ Simone Azzoni
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