Macbettu. Intervista ad Alessandro Serra
Parola al regista della pièce ispirata al “Macbeth” shakespeariano e recitata in sardo, la lingua delle sue origini.
È stata la centesima replica quella del 14 dicembre per il Macbettu di Alessandro Serra (premio Ubu Miglior Spettacolo 2017). Lo spettacolo, che traduce in sardo il Macbeth shakespeariano, ha fatto il giro del mondo: Bogotá, San Paolo, Tampere, Danzica, Sarajevo, Tbilisi, Ginevra, Montpellier sono solo alcune delle scene attraversate, ricevendo premi in Italia e all’estero.
Chi è Alessandro Serra? Di cosa è fatta la sua poetica e pratica artistica e cosa c’è all’origine di questo spettacolo dal successo tanto meritato e (forse) inaspettato per le dimensioni che sta assumendo?
Abbiamo intervistato il regista prima del viaggio intercontinentale che lo porterà a Buenos Aires a gennaio per poi proseguire la tournée in Francia. Cento repliche, ma è solo l’inizio?
Il teatro è il tuo mestiere ma la fotografia una grande passione e questa attenzione all’immagine emerge anche nei tuoi lavori. Che tipo di immagini ami fotografare e quali ami portare in scena?
Ho iniziato con la fotografia molti anni fa perché una persona cui sono molto legato mi regalò il suo corredo fotografico: tutto rigorosamente manuale e solo ottiche fisse. Ho imparato dagli errori, non ho mai frequentato un corso poiché mi sembrava assurdo che occorresse studiare anni per esprimersi attraverso un mezzo meccanico fondato su due parametri: tempo e diaframma. Quel poco che so l’ho imparato fallendo.
È una forma d’arte davvero accessibile a tutti ed è terribilmente potente e pericolosa.
C’è una gioia che non so spiegare nell’atto del fotografare, cogliere dalla realtà ciò che solo io posso vedere. E poi condividere con altri questa visione. Ogni scatto effettuato anche dal più sprovveduto utilizzatore di smartphone rappresenta un irripetibile punto di vista sulla realtà. I grandi fotografi riescono a convincere la retina e l’anima di chi guarda che quell’immagine sia stata scattata solo per loro. È la stessa cosa che accade in teatro di fronte a uno spettacolo esemplare: ci si riconosce, si è soli a guardare, ma è come se in quel preciso istante i nostri occhi fossero al contempo gli occhi dell’umanità tutta.
Il che non significa che io sia un bravo fotografo, tutt’altro, certamente mi riesce meglio il teatro, ma in teatro quella gioia è preclusa. In teatro per arrivare a condividere e a donare quella visione con il pubblico occorre oltrepassare una soglia che per me è sempre faticosa e a tratti dolorosa.
Che relazione si crea tra le due pratiche nella tua poetica?
Si fotografa la luce, i soggetti possono essere diversi, amo fotografare i bambini, i vecchi, gli oggetti abbandonati, tutto ciò che la luce fa emergere dall’indistinto, il bello che sta sotto gli occhi di tutti ma che pochi riescono a vedere. In scena non porto nulla di tutto ciò, me ne guardo bene. Il teatro si fa con gli attori e attraverso gli attori, il mio occhio fotografico mi aiuta forse a creare spazi in cui la vita è come concentrata.
Il segreto dei grandi fotografi credo risieda in una sorta di sprezzatura, si fotografa senza pensare di dover compiacere qualcuno, ma per il puro piacere di guardare aldilà.
C’è un fotografo sconosciuto, Eugène Atget, attore e pittore fallito che per poter sopravvivere si mise a fotografare Parigi col solo intento di fornire ai pittori del materiale da poter ritrarre. E così, ponendo il suo sguardo al servizio degli altri, realizzò inconsapevolmente delle magnifiche opere d’arte.
Torni in Sardegna, alle tue origini, e riscopri i Carnevali della Barbagia. Di cosa si tratta e in che modo sono all’origine dello spettacolo Macbettu? Quale è la relazione tra questi carnevali e la tragedia shakespeariana sul potere?
Mio padre era sardo, barbaricino per l’esattezza. Macbettu è una sorta di ritorno a casa. L’idea nasce nel 2006, durante un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia. Un reportage che divenne poi una piccola mostra fotografica. Nel corso di quella settimana non feci che pensare a questa possibilità: tradurre il Macbeth in sardo e farlo incarnare in soli uomini. Gli stessi uomini che mi impressionarono per la potenza dei gesti e della voce, per la confidenza che parevano avere con Dioniso e al contempo per l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti.
Nello spettacolo c’è una forte componente materica, per certi versi “dionisiaca”, archetipica, portata dai corpi, dalle voci e anche e soprattutto dalle materie e oggetti presenti in scena: pietra, terra, coltello, qualcosa che ricorda ancora una volta i carnevali sardi? Che valore hanno nella economia dello spettacolo e nel tuo lavoro? È vero, in quei paesi si celebra ancora Dioniso, che è il Dio del Teatro. Ma soprattutto è il rapporto di questo testo con gli archetipi e le forze primordiali della natura che ho in qualche modo intravisto nei carnevali barbaricini. Ciò che ho cercato di fare è estrarre dall’opera gli elementi universali riscontrabili in ogni anfratto del mondo e della storia oltre che nell’animo umano. Mi riferisco agli archetipi e ai meccanismi della natura umana. La Sardegna mi ha fornito la materia, la cenere, il sughero, il ferro, le cortecce degli alberi, il codice barbaricino, l’ironia pungente e irriverente dei carnevali, e poi le pietre che si fanno arma, nuraghe, ma soprattutto suono, grazie alle opere di Pinuccio Sciola, le cui pietre sono la voce della Sardegna, la sua memoria taciuta per millenni.
Anche la musica è prodotta da pietre sonore, appunto. Ci racconti qualcosa in più?
I suoni prodotti dalle pietre contribuiscono alla tessitura drammaturgica: le allucinazioni sono accompagnate dal suono liquido del calcare. Liquido poiché restituisce la memoria dell’acqua che, fossilizzandosi, è divenuta pietra. Durante la morte di Duncan, ad esempio, il suo grido dall’aldilà è accompagnato dai suoni cupi del basalto, che restituiscono la memoria di fuoco e lava.
Lo spettacolo è in sardo, una lingua poco usata nel teatro. Che forza offre questa lingua al testo e allo spettacolo?
È la lingua di mio padre, un suono aspro, asciutto, tagliente. Una lingua cruda eppure incredibilmente musicale. Un suono che ha accompagnato le mie estati dai nonni. Quando nel 2006 andai a Lula e poi a Bitti, Orgosolo, Gavoi, inseguendo i carnevali e i canti a tenore, quel suono che un tempo capivo e che mi faceva paura risuonò in me e mi sembrò perfetto per raccontare quel tragico destino.
In Shakespeare c’è la vita, non si può declamare. Le parole devono sgorgare. In italiano le traduzioni, anche le migliori, sono comunque verbose, non c’è vita scenica, non si possono dire, non c’è azione: la voce declama, il corpo tace. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori, perché bisogna trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili.
‒ Chiara Pirri
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