Danza e gioia di vivere. La nuova coreografia di Simona Bertozzi
La nuova creazione di Simona Bertozzi, “Joie de vivre”, è un pensiero in forma coreografica che attinge dall’universo vegetale al fine di ricercare quelle attitudini emergenti che si mettono in atto nell’incessante tentativo di giungere a uno stato di felicità.
È un continuo flusso di stati anatomici, di posture metamorfiche, di assemblaggi mutevoli alla ricerca di una “gioia di vivere”, di una felicità che generi stati emotivi e conseguenti forme inedite d’esistenza. E di coesistenza. In questa variazione della specie in perenne spostamento, di forme in divenire osservate nel loro mutare, di sorpresa derivata da un immaginario in atto, s’innerva la gestualità vibrante dei quattro danzatori della nuova, bellissima creazione di Simona Bertozzi, Joie de vivre, che ha debuttato al Teatro Storchi di Modena (produzione Ert, Emilia Romagna Teatro Fondazione e Nexus).
Ispirandosi anche ai pensieri del filosofo Pierre Zaoui, del quale riporta la citazione “La vera felicità rappresenta il grande dilemma se non di tutti quanto meno dei più saggi”, Bertozzi esplora la condizione di spazio, tempo e anatomia in cui si innesca questo processo di ricerca della felicità. Ben lungi dal voler rappresentare in maniera didascalica o figurativa uno stato emotivo impossibile da illustrare, né tantomeno codificare espressivamente un’estetica della gioia, la coreografa bolognese attiva sui corpi dei danzatori impulsi energetici, sensoriali, tattili e uditivi, attingendo dall’universo vegetale come paesaggio d’indagine ma senza cercarne l’imitazione nei loro comportamenti. A fecondare questa dinamica è stata, nel processo creativo, una serie d’impulsi dati agli interpreti – Sara Sguotti, Wolf Govaerts, Manolo Perazzi, Ohiana Vesga –, con parole quali: innervare, limite, linfa, timidezza, brulicare, umidità, vento, pollution. In questa zona di confine tra organico e inorganico si evoca, così, un ramificarsi di gesti, di movimenti, di traiettorie che, come le piante, reagiscono alla luminosità e al calore che si genera in scena mediante un tessuto sonoro pulsante – di Francesco Giomi – e un variare atmosferico e voluminoso di luci – di Simone Fini.
LO SPETTACOLO
L’inizio è dato da una fonte lucente che attraversa la bianca scena e dall’ingresso dei singoli dai costumi vari – chi con una corda al braccio, chi con una rete di plastica o una mascherina –, mentre un suono lungo dilata lo spazio acustico. Attraverso frasi coreografiche d’incrinature e stratificazioni, circolarità ed espansione, elevazione e atterramento, resistenza e repulsione, i danzatori dapprima vaganti si compongono e scompongono alternando singolarità e coralità nella tensione di colonizzare e coabitare lo spazio intorno. I corpi sembrano percepire vibrazioni e secrezioni sotterranee, il pulsare generativo di elementi aerei e di campi magnetici, creando tra di essi, contemporaneamente, condizioni di attrazione e instabilità.
Si susseguono tremolii, scosse, sussulti, movimenti sincopati di spalle, testa e braccia, sempre più veloci e in tutte le direzioni, poi rallentati e bloccati; quindi bellissimi intrecci che deflagrano fino a comporre quartetti scultorei tenendosi in tensione per le mani e le braccia, allungandosi come piante arbustive rivolte in alto. L’entrare e uscire dei performer, in coppia o insieme, smembrandosi o ricomponendosi, rotolando o strisciando, in equilibrio su una gamba o a testa in giù, accovacciati o in ginocchio, con posture anche zoomorfe, è segno di una condizione di resistenza e propulsione, di sopravvivenza e di slancio vitale. In tutto questo appropriarsi e consumare spazio, suolo, tempo, il rimando è alla produzione di scarti, a una sorta di entropia dove cresce sempre più la scoria che ingloba organico e inorganico, frutto dell’azione devastante dell’uomo.
ECOSISTEMI
Nel generarsi di un diverso ecosistema che allude a un paesaggio inquinato, la scena si anima prima di una coppia di cantanti ‒ Giovanni Bortoluzzi e Ilaria Orefice ‒ che intonano un vocalizzo armonico difonico, mentre manovrano degli oggetti di cantiere edile e un cono di segnaletica stradale usato come megafono canoro; quindi, in ultimo, di un groviglio di tubi che sembrano viscere umane. Dentro questo strisciante ammasso di plastica si muovono i danzatori come a volersi liberare della materia. Ci riusciranno con movimenti sussultori, aiutandosi vicendevolmente con lente estromissioni di alcune parti del corpo e caricandosi sulle spalle quel cumulo colorato. Che ritornerà dopo altre sequenze di suoni e voci incalzanti, mentre la sorprendente danza dei quattro sembra rispondere a un rito ancestrale. Prigioniero di quel groviglio rimarrà infine solo uno di loro, sul quale cala il buio mentre tenta, prima tirando fuori la testa poi il busto, di liberarsi. Non sapremo se soccomberà o no. Se, inglobandosi, si rigenererà in altro. Se l’infinita potenza generativa della natura prevarrà sul corpo umano.
‒ Giuseppe Distefano
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