Teatro, spazio e colore. Intervista a gruppo nanou
Si è concluso nel mese di dicembre il Festival Teatri di Vetro di Roma, diretto da Roberta Nicolai. La rassegna ha ospitato il complesso progetto “Alphabet” di gruppo nanou. Ne abbiamo parlato con Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci.
gruppo nanou concentra la propria ricerca sul corpo, inteso come corpo sonoro, corpo/oggetto, corpo/luce, elementi che dialogano con il corpo del performer coabitando uno spazio multiforme. Alphabet è il progetto pluriennale che la compagnia ha di recente avviato, un progetto di scrittura per una danza possibile che si prefigge di far chiarezza sulla composizione coreografica attraverso prove, esperimenti e verifiche. Di questo progetto articolato, ricco di relazioni esterne alla compagnia, incontri e studi hanno parlato Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, ospiti il 17, 18 e 19 dicembre scorsi al Festival Teatri di Vetro con tre step di Alphabet: Resa, Relazione, Lessico.
Il progetto presentato a TDV prevede tre step: resa, relazione, lessico. Ci raccontate queste tre declinazioni di Alphabet?
Alphabet è un dispositivo messo a punto per fare chiarezza sulla composizione coreografica, non c’è un tema se non il dispositivo stesso. Abbiamo lavorato nella direzione di identificare in maniera precisa i vari elementi coreografici messi in campo. All’inizio di ciascuna performance vengono dettate delle didascalie verbali che esplicitano e analizzano allo spettatore ciò che sta accadendo e fungono da indicazioni per i performer. Questo medesimo sistema, Alphabet, a Teatri di Vetro, è stato scomposto in tre punti di vista: Resa è un lavoro compiuto, al limite tra didattica e performance. Relazione è la consegna di una relazione tra la nostra metodologia e queste tre danzatrici estranee al lavoro di nanou. Le tre danzatrici, Carlotta Fanelli, Eloise Listuzzi, Jane Llah, sono state selezionate dal D.A.F. Dance Arts Faculty / Spellbound, in co-produzione con il festival, e hanno lavorato con noi per tre giorni, assorbendo una metodologia generativa restituita poi in scena con il loro linguaggio.
E l’ultima tappa?
Lessico è l’ultima tappa in cui la coreografia deflagra, nel senso che viene smontata e analizzata pezzo per pezzo, per identificare con lo spettatore in maniera chiara e dialettica quali sono le indicazioni che segnano ogni singola parte coreografica. Sono indicazioni che si basano su principi, non su figure o immaginari che il danzatore applica per generare materiali, movimento e tensione scenica. Il punto di arrivo di Alphabet non è rispettare le regole, ma, attraverso il rispetto delle regole, mandare volutamente in sovraccarico le informazioni per generare incidenti creativi e nuovo materiale coreografico.
Il termine “dispositivo” trascina con sé uno spessore teorico importante. Cosa indica per voi e come si traduce nelle vostre pratiche coreografiche?
Il termine dispositivo per noi è un innesco, dispositivo di accensione di una macchina. Assolve una funzione. Alphabet ha una serie di dispositivi, cioè di inneschi per generare materiale coreografico e rapporti che si adoperano per attivare lo spazio. La cosa interessante è quando il dispositivo perde di importanza perché l’innesco ha messo in opera la macchina e lo spazio, l’attività dei danzatori diventa Sistema, cioè luogo continuamente in attività di cui posso osservare tutte le relazioni in essere. È la perdita della necessità di un fine, a differenza del dispositivo il cui fine è l’accensione.
Da dove nasce l’urgenza di esplorare il tema della relazione con performer estranee al vostro percorso?
Dalla necessità di creare alfabeto e al contempo di chiarirlo, mettendolo a repentaglio in continuazione. La prima tappa di Alphabet è scaturita dall’incontro con degli studenti universitari a Parma, per il festival May Days. Quindi dall’inizio si è aperto a membri estranei alla compagnia. Questo incontro, come quello delle ragazze del D.A.F., è ciò che intendiamo in senso ampio con “incidente creativo”.
Alphabet nasce come progetto relazionale: sintetizza un discorso da riportare a qualcun altro e si affianca a qualcun altro per farlo. Abbiamo assunto il presupposto che la danza contemporanea venga percepita come qualcosa di difficile da comprendere e dunque intrapreso un percorso di evidenza e chiarezza per restituirla. Questo percorso ha attivato una serie di relazioni, incontri con professori e studenti, architetti, danzatori, grafici ecc. nell’intento di cercare territori di interessi comuni che potessero ingaggiare l’interesse fuori dal panorama teatrale. Teatri di Vetro, Città di Ebla / Ipercorpo, La MaMa Umbria International, Ariella Vidach e Scenario Pubblico hanno creduto molto in questo dispositivo, generando importanti occasioni di incontro e lavoro.
Le luci, ma soprattutto le ombre, sembrano essere degli elementi preponderanti di queste scritture coreografiche. Che ruolo rivestono nella genealogia di Alphabet? Potete raccontarci de Il colore si fa spazio?
Lo spazio per noi è un ambiente vivo, è suono, è luce, è corpo. Da sempre ci siamo relazionati con designer e sound designer, in particolare con Fabio Saiz alle luci e Roberto Rettura ai suoni, cercando di creare un vocabolario organico per tutti gli elementi in campo. In questo caso le ombre che emergono in scena non sono dissimili per noi dalla consistenza del corpo, danzano un’altra coreografia e rappresentano un’altra consistenza della carne. Il colore si fa spazio è un progetto nato dall’incontro con Daniele Torcellini, professore di cromatologia all’Accademia di Genova e Verona, che conduce una ricerca sull’utilizzo delle luci led su superfici colorate. È un percorso che abbiamo iniziato nel dicembre 2017 e ci stiamo prendendo una serie di tempi distesi di ricerca per indagare come il movimento della luce determini un cambio di certezze.
Insieme a Daniele Torcellini stiamo cercando di portare avanti lo studio di un dispositivo tecnologico che ci permetterà di utilizzare il colore come mezzo per far fluttuare la percezione del luogo agito, uno spazio che muta al mutare del cambio cromatico. La cosa interessante che stiamo notando è che, agendo in questo spazio “spostato dal colore”, il performer perde i connotati dimensionali, percettivi e luminosi del luogo che abita. Lo spazio fluttua e cambia forma. Per noi da dentro è uno smarrimento totale, il cambio del colore fa smarrire costantemente le profondità.
Prossimo step?
Il prossimo step di Alphabet vorrebbe essere un incontro con fotografi e videomaker. Questo lavoro sul colore e sulla luce sta infatti meravigliosamente mandando in tilt tutti i nostri dispositivi tecnologici. Sembra che questo lavoro non sia riproducibile fedelmente. Quindi vogliamo trovare il modo di capire come fissarlo. Non ci importa la fedeltà, ma la riproduzione di un materiale terzo.
Il materiale generato da tutti questi tracciati di Alphabet ci servirà come innesco per tornare a lavorare su un tema che sarà Miles Davis nel 2019.
‒ Dalila D’Amico
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