Per il tuo bene. Famiglia e ricatti emotivi sul palcoscenico
Testo vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” nel 2017, tradotto in francese, inglese e rumeno, rappresentato al Théâtre Ouvert di Parigi e al Festival di Avignone dell’anno scorso, “Per il tuo bene” parla con sorprendente vitalità di ciò che ormai è divenuto quasi irrappresentabile: il mistero del legame che unisce una madre a un figlio.
Una donna si presenta in prima battuta dicendo: “Io ho un figlio, cioè sono una madre”. E il figlio grande: “Io sono un figlio. Cioè ho una madre”. Più avanti, la stessa donna cambiando veste: “Io sono una nonna. Una madre in pensione”. E un altro figlio: “Io sono un nipote. Sono viziato e felice”. Così, a seguire, gli altri personaggi – uno zio, una nonna paterna, una ragazza, uno sconosciuto – quasi sempre immobili e rivolti al pubblico. Le azioni che seguono sono minime, poi più articolate. La dinamica verbale che s’innesca, semplice e diretta, con toni pacati o accesi, apre con acuta risolutezza all’universo famigliare. Unica figura assente in questo microcosmo, ma attorno alla quale tutto ruota, è il padre. Ogni volta evocato, un cupo suono metallico interrompe la scena e cambia la sequenza creando un alone di mistero. Scopriremo in ultimo che l’uomo è ammalato. È il motivo per cui la madre – divisa tra la sua funzione materna e le sue aspirazioni individuali, forse anche lei malata come ci lascia intuire in ultimo il testo ‒, in una delle sporadiche conversazioni telefoniche col figlio maggiore fuggito a studiare in un’altra città, gli chiede di tornare a casa. Il ritorno del primogenito nell’alveo famigliare per affrontare la difficile circostanza, il richiamo del focolare, degli affetti, ma anche il rifiuto di essi, ridesta vecchi discorsi e abitudini. S’innescano così tragicomici meccanismi, come se il tempo non fosse trascorso. Recriminazioni, colpe, cinismo, battute pungenti, rancori e affezioni inespresse emergeranno con crudeltà e con tenerezza manifestando, di volta in volta, sentimenti filiali e fraterni, anche contraddittori, tra le diverse generazioni. E quell’incomunicabilità che le caratterizza. Significativa, a tal riguardo, è una delle battute del figlio: “Mia madre non chiama mai. Qualche volta mi scrive per sapere se ho ricevuto i messaggi precedenti: ormai tutti i suoi messaggi sono una catena di messaggi che s’interrogano sull’effettiva ricezione del messaggio di prima fino a risalire al messaggio primigenio che si è perso quando i cellulari avevano ancora i tasti”.
MECCANISMI RELAZIONALI
Con Per il tuo bene (produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, in scena allo Storchi di Modena e all’Arena del Sole di Bologna), il 28enne autore e regista napoletano Pier Lorenzo Pisano, con un linguaggio fresco e acuto, entra a gamba tesa nei meccanismi relazionali scardinando gli ingranaggi che li muove. Senza romperli. Affonda poi le mani con leggerezza, ne smuove le spire con pungente sensibilità. Ne sorride. Ne soffre e se ne distanzia. Osserva da esterno per rientrarvi subito e guardare da dentro, raccordando i fili che regolano quei rapporti inceppatisi, ma dove non c’è cattiveria. Li fa governare da trame ricattatorie, quelle emotive e dell’amore; li imbastisce con toni graffianti e vivaci, da interrogatorio, con domande e risposte secche, con pensieri ad alta voce, creando una tensione ricca di ironia e conseguente comicità. Pisano rivela un approccio e una scrittura alquanto originale nel parlare della famiglia, soggetto plurivisitato, indagato, sezionato, sviscerato, che non smette mai di essere ulteriormente approfondito, e ora osservato da un altro, inedito, punto di vista. Luogo da dove tutto nasce e ha origine e al quale, volente o nolente, tutto si riconduce, la famiglia, con il suo senso, o il suo disprezzo, è il motore che ci muove.
INTERNI DOMESTICI
Lo si evince ancora una volta, con questo nuovo, profondo sguardo, dalle dinamiche che intercorrono in quell’interno domestico orchestrato sapientemente e con dovizia dalla regia dello stesso autore, il quale colloca i personaggi dentro una scena di stampo “cinematografico” (di Giulia Carnevali). Sono pareti mobili, quasi otturatori di una macchina fotografica. Scorrono in lungo aprendo e chiudendo la nuda scena colorata, focalizzando e allargando le azioni che hanno come perno un’ingegnosa tavola basculante che alza e abbassa i piani di visione, diventa tavola imbandita, panchina, roteante letto d’ospedale. Inclinata frontalmente segnerà, in una sequenza ripetuta più volte, la partenza del figlio con uno scambio di battute con quella madre premurosa e apprensiva, che farà dire, infine, a entrambi quelle tre parole sempre temute: “Ti voglio bene”. A smorzare il finale da happy end, lasciandolo aperto, ci penseranno il fratello minore e la ragazza che s’interrogano sul loro futuro. “Vuoi fare una famiglia? Ti immagini io e te che diventiamo una famiglia?”, chiede lui. Lei risponde: “No. Andiamo avanti e vediamo. Per ora va bene così”. E lui: “Non c’è nemmeno la minima possibilità?… Potremmo essere noi quelli che ce la fanno… Potrebbe succedere. Tanto vale provare. Al massimo finisce che ci odiamo”. Perfetti e bravissimi i cinque interpreti: Laura Mazzi, Edoardo Sorgente, Alessandro Bay Rossi, Marco Cacciola e Marina Occhionero.
‒ Giuseppe Distefano
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