Tre pilastri del teatro italiano. A Milano
Antonio Latella, Eugenio Barba e Romeo Castellucci. Sono questi i nomi dei tre registi che hanno animato il ciclo dei “Grandi Maestri” al Teatro dell’Arte, presso la Triennale di Milano.
Nell’ampio panorama teatrale milanese esiste una garanzia assoluta di qualità e alto livello: si chiama Teatro dell’Arte e si trova all’interno di Triennale. Nell’ultimo mese ha riservato sorprese anche per i conoscitori più raffinati, con il ciclo dei Grandi Maestri: tre appuntamenti in successione firmati Antonio Latella, Eugenio Barba, Romeo Castellucci. Colossi del teatro contemporaneo, registi pluripremiati e fra i più celebri in tutto il mondo, portano in scena tre opere mastodontiche nate dalla reinterpretazione di classici della letteratura e della musica lirica: profondità di pensiero, inconfutabile cifra stilistica, rielaborazione profonda e personale del tema ed estrema semplicità di fruizione sono costanti indiscusse in questi tre prestigiosi prodotti d’arte.
ANTONIO LATELLA ‒ AMINTA
Vietati gli orpelli in questa rivisitazione della favola pastorale di Torquato Tasso. Antonio Latella, regista campano già direttore del dipartimento di Teatro della Biennale di Venezia, nella propria versione di Aminta crea una scena fatta solo di microfoni fissi e un faro mobile rotante, contesto ottimale per dare risalto alla maestria degli interpreti, quattro come i protagonisti del dramma: Aminta, Tirsi, Silvia e la ninfa Dafne. Sempre presenti sulla scena, essi recitano divinamente il testo del Tasso (lasciato intonso e riproposto fedelmente in tutta la solennità dei suoi endecasillabi), in piedi di fonte ai microfoni per tutta la durata della pièce con atteggiamento naturale e disinvolto, movimenti minimi e spontaneità nei volti, ma non senza estrema perizia e metodo nella recitazione. In platea è palpabile la tensione generata da questa regia così minimale: crescono a vista d’occhio curiosità e desiderio di vedere dove il regista campano voglia portare il proprio pubblico. La sorpresa non tarda ad arrivare: la prima azione destabilizzante accade quando Silvia viene aggredita da un satiro che tenta di violentarla. Qui la messa in scena lascia aperta l’interpretazione: Silvia, dall’aspetto vigoroso e dal fare dominante, toglie le vesti al satiro nonostante ne sia preda, in un gioco di ruoli continuamente mutevole e senza un finale chiaro.
Più in là nella trama si giunge poi al vero e proprio colpo di scena: il parlar d’amore in endecasillabi lascia improvvisamente il posto alle canzoni alternative rock di PJ Harvey e dei Can, cantate a squarciagola sulle note (anzi, una sola corda) di una chitarra elettrica. L’impatto è decisamente spiazzante, quasi da suscitare il fatidico dubbio “provocazione fine a sé stessa?”. Niente paura, il maestro Latella fornisce la chiave di volta proprio a un soffio dalla fine ovvero quando, nell’epilogo, la dea Venere (un eccezionale Michelangelo Dalisi) cerca il figlio Eros che si è perduto tra gli uomini: uomini o dei, pastori cinquecenteschi o cantanti rock, in endecasillabi o in inglese, ciascun essere dotato di anima è mosso dal comune motore della ricerca di Amore.
EUGENIO BARBA ‒ UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA
Risulta chiaro fin dal primo istante che con Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa ci troviamo di fronte a chi del teatro contemporaneo occidentale ha scritto le basi. Per la prima volta fuori dall’Odin Teatret, Eugenio Barba firma una regia condivisa con Julia Varley e Lorenzo Gleijeses, quest’ultimo unico presente in scena: un’eccellente rivisitazione magistralmente attualizzata del racconto kafkiano Le Metamorfosi, in cui il protagonista è un danzatore contemporaneo completamente assorto dalle proprie ricerche metaforiche sul movimento, al punto da rimanere imprigionato in una danza ossessiva, alienante e perpetua. Delicatissimo il gioco del regista che mette in scena un interprete estremamente temprato nell’uso sia della voce che del corpo, il quale si dona subito con generosità e una resistenza allo sforzo quasi disumana, impeccabile e penetrante, ma contemporaneamente racconta con intelligenza estrema proprio la storia di chi si ritrova perduto nella troppa ricerca, esasperato dal desiderio di perfezione, perdendo a poco a poco il senno e ritrovandosi trasformato in un corpo svuotato e privo di intelletto. La potenza seducente della scena è fortemente accentuata dalle musiche e dalle luci di Mirto Baliani, ideate ad hoc con perizia straordinaria. Risulta stupefacente la semplicità di fruizione di quest’opera così visibilmente cesellata e curata in ogni minimo dettaglio eppure cristallina e diretta come se accadesse senza messa in scena. “Del resto siamo animali razionali ma siamo animali” (E. Barba).
ROMEO CASTELLUCCI ‒ SCHWANENGESANG D744
Che cosa accade dopo il canto del cigno? Cosa dovremmo aspettarci dopo la sublime interpretazione dei Lieder schubertiani a opera della soprano Kerstin Avemo accompagnata dal vivo dal pianista Alain Franco? Abbiamo davvero il coraggio di chiedere di più? La risposta è no e Romeo Castellucci lo mette in chiaro in maniera insindacabile. Il famigerato regista consegna con una semplicità cruda e radicale l’intera azione scenica alla soprano svedese, lasciandola sola con il suo fascino senza età al centro di un palcoscenico completamente spoglio, forte solo del suo canto. La voce contemporaneamente possente e sottile si unisce alle note del pianoforte, dando vita a un suono puro e perfetto che con spaventosa innocenza arriva a toccare la sfera più intima e privata. In scena si svolge una lenta metamorfosi: Kerstin inizia il canto con atteggiamento quasi distaccato, incrementando via via la potenza espressiva e la passione del volto e del corpo fino a trasformarsi in una maschera di dolore nel Lied finale, apice del racconto di quel dolore e di quella sofferenza che per natura sono insiti in noi. In ginocchio sul fondo della scena emette l’ultima nota, lasciando gli spettatori in preda alla dolcezza e allo struggimento di questo altissimo momento lirico. Il cigno ha cantato, lo spettacolo è finito: ora tocca a Castellucci. Il regista mette in scena la fine, il sempre atteso “dopo”: in questo palcoscenico vuoto e scuro rimane solo Kerstin che trasforma la sua lirica in rabbia, muovendosi a terra come una creatura fantastica, indossa una maschera satanica e si chiede perché ancora si stia lì a guardarla, per poi sparire sotto il telo nero che fino ad allora fungeva da pavimento. Una scelta intelligentemente provocatoria, cruda ed efficace: il maestro ha dato forma all’irrappresentabile, all’attesa logorante e inutile, con stile inconfondibile ed essenzialità ammirevole.
‒ Giada Vailati
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