Pulcinella moltiplicato per cinque. Sul palcoscenico di Napoli
In un luogo di passaggio, abitato da una moltitudine di esseri uguali e diversissimi, tanti Pulcinella abitano il purgatorio di una stazione sotterranea in perenne attesa di un segnale di salvezza che non arriverà mai. Andrea De Rosa firma la regia del denso testo di Linda Dalisi.
È una lingua napoletana colta e popolare, barocca e sgrammaticata, poetica, terrigna e fantasiosa. Una scrittura che incrocia citazioni di Petito e Giordano Bruno, Totò, Beckett e Foscolo, Rilke e Dante, Platone e Shakespeare. Con essa Linda Dalisi, autrice di E pecché? E pecché? E pecché? Pulcinella in Purgatorio, ci trasporta, nella messinscena del regista Andrea De Rosa (produzione Teatro Stabile Napoli – Teatro Nazionale), in un luogo di passaggio immaginario post-catastrofe, un luogo di espiazione, di immobilità, con un Pulcinella uno e trino, nella perenne attesa di un segnale di salvezza. Che non arriverà mai. È una landa desolata di beckettiana memoria, e visione. Uno spazio senza tempo, eppure definito. Ricoperta di terra che sembra cenere lavica depositatasi dal Vesuvio, la scena è delimitata da blocchi di fari simili a finestre con una luce accecante che a tratti smorza la sua intensità.
Vive, come in Godot, il tempo dell’attesa di qualcuno che verrà a salvare. Forse. A scandire quelle parole di speranza, discettando in italiano, è una guardiana seduta al centro della scena a sorvegliare rigidamente un tombino transennato da nastri di lavori in corso, unica via di fuga verso un “oltre” sotterraneo: un “al di là” in contrapposizione a un “al di qua”.
Negli angoli quattro strambi Pulcinella: uno con un carrettino pieno di libri, cimeli, costumi e parrucche; un altro in abiti settecenteschi, seduto su una sbilenca poltrona d’epoca; un terzo con indosso la maglietta di Maradona e un vecchio pallone in mano col disegno del teschio di Yorick; il quarto, anch’egli solitario, si muove ossessivamente e meccanicamente come una marionetta. A rompere il silenzio arriva un altro Pulcinella, vagabondo e smarrito, con un sacchetto in mano, che spunta dalla platea fin sul palcoscenico, chiedendo più volte stupito: “Scusate… Ma dove ci troviamo? Se me lo spiegate, perché non l’ho capito. Però è bello eh? Addò stammo? Che loco è questo? A chi aspettiamo?”. Domanda che non riceverà mai risposta.
Sono, invece, gli altri suoi simili a porgli, singolarmente, quesiti filosofici ed esistenziali dove, negli sproloqui della chiacchera spicciola e nei lazzi, entrano anche discorsi sulla fisica, la matematica, la musica, il teatro. “Perché i fotoni hanno una massa? Perché le piante producono clorofilla? Perché siamo soli nell’universo? Perché non si arriva mai a capo di niente? Perché siamo arrivati a questo punto? Perché le mele sono rosse? Perché il tempo scorre? Perché la gente è sempre più violenta? Perché distruggo sempre tutto con i miei perché?”.
I PERCHÉ
Tra un perché e l’altro conosceremo le vicende di ciascuno, facce disparate di un’unica maschera (come il racconto di chi ha attraversato mondi ed epoche diverse chiedendosi, infine, perché si ha bisogno della musica e perché si ha paura della morte).
Fermi nelle loro postazioni i Pulcinella si staccano soltanto quando, credendo di sentire un rumore provenire dal sottosuolo, confluiscono tutti in un punto ad ascoltare con l’orecchio per terra, e ritornare subito al loro posto, delusi del falso segnale. L’allarme assordante di una sirena suonerà invece ogni volta che il piede del Pulcinella, vagabondo e curioso, toccherà la pedana sulla quale siede la sorvegliante. Picchiato da lei a più riprese tenterà, inutilmente, altre volte, di varcare quella soglia per avvicinarsi al tombino, varco che rappresenta la porta della legge. All’ossessiva e interminabile richiesta di spiegazioni ‒ “Amma sperà? C’amma disperà? C’amma esasperà? Amma esalà? Amma evaporà? Amma scorporà? Quanno fernesce? Comme se jesce? Comme se jesce? Comme se jesce?” ‒, in risposta, in ultimo, gli viene raccontata la parabola di “Pullecenella”, dei tanti guardiani che presiedono la porta d’ingresso compreso l’unico incorruttibile e ultimo ostacolo al suo accesso alla legge, al quale Pullecenella, ormai cieco e prima di schiattare, pone l’ultima domanda: “Ma se tutti si sforzano di arrivare alla legge, come mai allora nessuno, in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?”.
E si sente rispondere: “Nessuno poteva ottenere di entrare da questa porta, questo ingresso era riservato solo a te. Adesso vado e la chiudo per sempre». “E pecché?”, ribatte. Risposta: “Pecché ’ndringhete ’ndrà”. Creature forse morte, forse reincarnate, forse reali o sognate, emblema di un riscatto sociale, umano, e di una città eternamente sospesa tra passato e futuro, il Pulcinella moltiplicato di Linda Dalisi, “campione di forza dionisiaca eruttiva e distruttiva”, che fa ridere, piangere, commuovere, racchiude tutte le peculiarità della celebre maschera napoletana, un misto di strafottenza, incredulità, candore, rabbia, miseria umana, superbia, e di sfida verso il dogma, verso il potere in tutte le sue forme. “Ma, come tutte le forze vulcaniche” – spiegano Dalisi e De Rosa ‒, “quella lava è destinata presto a seppellire tutto.
Lo spirito critico si ritorce contro se stessi, distrugge tutto e per questo forse, a Napoli, qualunque rivoluzione sembra destinata, prima o poi, a diventare un souvenir. E pecché? E pecché? E pecché? Ma Pulcinella non può fermarsi mai, muove guerra persino alla morte, e quello è uno scontro filosofico di fronte al quale non può più essere “sofistico” ma deve vincere… a suon di mazzate”. Sono la voce e il corpo degli attori ‒ Massimo Andrei, Maurizio Azzurro, Anna Coppola, Rosario Giglio, Marco Palumbo, Isacco Venturini ‒ a dare poetico vigore, forma e musicalità alla lingua napoletana vergata dall’autrice e resa magnificamente teatrale grazie alla regia orchestrata dalla mano sapiente di Andrea De Rosa.
‒ Giuseppe Distefano
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