Arti performative a Milano. Reportage dal Festival Fog
Un focus sulla prima parte del festival milanese dedicato alle arti performative, in programma fino al 5 giugno.
Trascorsa ormai la prima metà del festival, FOG Triennale Milano Performing Arts si conferma una delle rassegne di arti performative più poliedriche, spaziando dalle giovani proposte ai big della coreografia, dalla danza al teatro, dal concerto dal vivo alle installazioni di sound design, mantenendo in tutti i casi l’alto livello qualitativo che contraddistingue la programmazione del Teatro dell’Arte di Milano. Di seguito un piccolo assaggio del primo mese di festival che proseguirà fino al 5 giugno.
ITALIA ‒ UN FOCUS SUI GIOVANI COREOGRAFI
In trasferta negli spazi del DiD Studio alla Fabbrica del Vapore due giovani artisti, Siro Guglielmi e Sara Sguotti, entrambi sia autori che interpreti del proprio lavoro: due mondi fatti di suggestioni e atmosfere estremamente differenti, eppure accomunati dalla scelta di collocare il corpo al centro della scena. Indagare le infinite possibilità di movimento per ricercare una danza sempre più pura e libera e sincera. Se il rischio che questa ricerca rimanga fine a sé stessa è molto alto, tuttavia, quando l’artista riesce a dominare l’indagine sul movimento rendendolo il mezzo per condividere un’idea, allora qualcosa di nuovo, originale e onestamente intimo emerge. È quanto è avvenuto nelle proposte dei due giovani coreografi italiani. Nel suo P!nk Elephant Siro Guglielmi si muove nello spazio scenico con minuzioso controllo ed elegante fluidità, in un generale clima giocoso: la gestualità cambia continuamente di registro, il movimento è in perenne evoluzione, il disegno del corpo si modifica suggerendo allo spettatore una riflessione su temi come la determinazione della sessualità o l’importanza dell’aspetto nella società odierna. Una ricerca personale tradotta con un movimento armonioso in costante trasformazione.
Diametralmente opposto l’universo di S.solo, presentato e interpretato da Sara Sguotti: una performance densissima, dal sapore ancestrale; un corpo in scena trasfigurato da movimenti estremi, disumani, animali che conducono lo spettatore in un’ambientazione primitiva, rituale. Un tesissimo gioco di equilibri nasce sulla scena: da un lato lo sguardo lontano della danzatrice, assorto in un qualche mondo di magia, dall’altro il suo corpo pulsante e carnale, estremamente terreno. Questi due elementi creano un contrasto che si risolve continuamente grazie all’armonia e alla lentezza del gesto, facendo nascere in platea un’eccitante inquietudine che si risolve nel finale con il ritorno alla stasi.
SPAGNA ‒ STRAORDINARI TABLEAUX VIVANTS
La Plaza è uno spaccato di vita quotidiana ricreato con la geometria, i colori e la cura di un quadro di Hopper. L’estrema dilatazione temporale dell’azione scenica trasforma gli scenari comuni di una piazza cittadina in quadri distinti che raccontano la realtà pur rimanendo confinati in un universo parallelo: questo contrasto fra estraniamento e realtà rende la fruizione di questo spettacolo estremamente privata, suggerendo come il modo di vivere il quotidiano stia effettivamente diventando sempre più solipsista. La regia è un successo su tutti i fronti: suscita spontaneamente riflessioni su temi all’ordine del giorno (immigrazione, omologazione, progresso a tutti i costi…) senza tuttavia essere esplicitamente di denuncia, offrendo una ricchezza di particolari esteticamente impeccabili, soprattutto negli accostamenti cromatici dei costumi, nella plasticità dei corpi dei performer e nei dettagli provocatori che emergono di tanto in tanto: il risultato è una pièce da godere dimenticandosi delle coordinate spazio/tempo, lasciando scorrere il lento flusso della scena, esteticamente incantevole e dal peso sociale non indifferente.
VERTIGINI A BASSA QUOTA
Michele di Stefano dà forma al concetto di “meta” facendo un parallelo tra coreografia e montagna, dittico che sceglie di esplicitare anche a livello registico dividendo nettamente il suo Parete Nord in due parti: la prima danzata, la seconda interamente scenografica.
La danza è generata da uno spostamento continuo degli interpreti nello spazio e dà vita a un movimento eterno ed estremamente vario, la cui dinamica suscita un senso di vuoto nello spettatore: un rimando immediato alla sensazione di vertigine in alta quota e al bisogno umano di vincerla per poter vivere serenamente all’interno di quel paesaggio, arrivando quasi a fondersi con esso. La pace arriva nella seconda parte: la scena consiste in un viaggio onirico i cui protagonisti sono gli elementi scenografici ‒ degli oggetti che fluttuano illuminati da un fioco bagliore azzurrino e una tenda da campeggio, dalla quale, al termine del viaggio, riemerge l’uomo. Il coreografo vincitore del Leone d’Argento riconferma la propria abilità di astrazione riuscendo ancora a regalare emozioni estremamente umane e concrete: indiscusso maestro di efficaci raffinatezze.
‒ Giada Vailati
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati