Danza. Le quattro stagioni itineranti di Fabrizio Favale
Un ciclo coreografico della Compagnia Le Supplici, che intreccia danza e paesaggio. Un percorso itinerante negli spazi aperti, naturali, agricoli e industriali dell’Area Metropolitana di Bologna, a scandire il passaggio delle stagioni.
Non è certamente una novità il binomio danza e paesaggio, la danza site specific fruita in forme di performance immersive dentro contesti naturali, urbani, di archeologia industriale e quant’altro. Classificabile all’interno di tale modalità ‒ nello specifico, di quel “terzo paesaggio” coniato dall’ingegnere botanico Gilles Clément, metafora del pianeta di cui l’umanità ha il compito di essere il giardiniere ‒, e con una peculiarità di grande respiro, di dilatazione percettiva, di mappatura organica, di “transumanza” partecipativa di parabole tra poesia e realtà, è il progetto Le stagioni invisibili realizzato da Fabrizio Favale con la Compagnia Le Supplici. Partecipare anche solamente a una delle quattro performance coreografiche nell’arco di un anno, che scandiscono il passaggio delle quattro stagioni, è anzitutto un’esperienza. Di condivisione. Dove il paesaggio diventa nutrimento dell’anima.
È un’immersione fisica, all’aperto, dentro scenari naturali, agricoli o industriali, che richiedono silenzio, ascolto, sguardo partecipe. Da esploratori. Come lo è il coreografo Fabrizio Favale, dedito da sempre a perlustrare con la danza paesaggi geografici e naturali evocandoli sulla scena, nei musei, o in altre location non tradizionali, suscitando vedute, luoghi concreti e spazi infiniti. O vivendo i luoghi direttamente. Come, appunto, per il progetto Le stagioni invisibili – ciclo coreografico infinito (progetto speciale di Agorà con la direzione artistica di Elena Di Gioia, e promosso dalla Unione Reno Galliera, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, produzione Associazione culturale Liberty), volto a scoprire “territori d’incanto e apparizione”, come li definisce lo stesso coreografo che, con la natura, motivo di continua ispirazione, coltiva una relazione di simbiosi, concreta e quasi sensuale.
LE STAGIONI
Per quattro appuntamenti, da ottobre dello scorso anno a maggio 2019, ci si è ritrovati, spettatori itineranti accanto ai danzatori della compagnia, in zone inesplorate del territorio bolognese in un percorso collimante esattamente con l’alternarsi del ciclo delle stagioni, vissuto in qualunque, inaspettata, condizione climatica, sia di sole, che di pioggia o neve. Dall’area naturalistica di rimboschimento e le radure di Boscovivo ad Argelato per l’arrivo dell’autunno, al paesaggio lunare di dune sabbiose dell’impianto industriale di Concave per l’inverno; dalla geometria di un pioppeto con la calda luce del tramonto che in esso filtrava, per festeggiare la primavera; al silenzio e ai sonori segreti dell’Oasi naturalistica La Rizza, infine, per l’inizio dell’estate. “È un lavoro nomade e riproducibile ovunque” – spiega Favale ‒, “che necessita di uno spazio agricolo aperto e ampio, di una zona dove scomparire e di un punto di visione del pubblico relativamente lontano dalla spianata dove si svolge l’evento”.
In ciascuno di questi i danzatori hanno respirato il luogo, la sua energia, la sua bellezza, gli elementi naturali circostanti. Di essi hanno catturato la luce, i suoni, le forme; vi hanno percepito le figure nascoste, mimetizzandosi e restituendoci in movimenti e in sequenze gestuali un immaginario epifanico, sconosciuto, nascosto, quel “sentire” il paesaggio con tutto il corpo che è anzitutto dei performer le cui azioni si fanno veicolo di trasmissione di stati meditativi e contemplativi.
NELLA RISERVA LA RIZZA
La vegetazione e la fauna della Riserva naturalistica La Rizza, dove abbiamo partecipato, ricca di diverse specie di uccelli, insieme hanno contribuito a creare il terreno ideale per un lavoro sul corpo che, a partire dalla percezione sensoriale, conduce a danzare in osmosi con l’ambiente naturale. Nell’addentrarci silenziosamente, sostando in diverse aree, abbiamo incontrato per primo un danzatore col costume azzurro, fermo accanto a dei cespugli, in ascolto di cinguettii provenienti da più fonti ai quali, fattosi anch’egli pennuto, rispondeva con movimenti consoni a quei suoni. Più in là, in mezzo agli alberi, due figure appollaiate su dei grossi tronchi immobili e con le braccia aperte come spaventapasseri vestivano tuniche e cappucci colorati, e noi a immedesimarci nella loro staticità per assorbire, in ascolto, gli incantatori strepitii d’uccelli attigui. Un invito a un ascolto ancora più attento, a una maggior dilatazione del silenzio, e a immaginare un pullulare di specie animali o attendere improvvise apparizioni, è stato il sostare davanti a una vasta distesa d’erba, un campo sterminato che si perdeva a vista d’occhio. Nessuna presenza umana o di volatile affiorava, come erroneamente si poteva pensare, ma una sollecitazione a soffermarsi a contemplare, a creare una breccia temporale nella morsa del nostro personale spazio interiore. Da lì, ripreso il cammino, subito un’altra sosta per osservare, nel mezzo di una radura tra i campi, un nugolo di danzatori dai costumi color carne danzare nel silenzio e dare vita, nell’astrazione delle posture, singole e all’unisono, nei rimandi a forme e profili di animali e di vegetali non chiaramente identificabili, a un campionario di fauna volatile, di nidificazione collettiva, che sfuma continuamente in relazioni d’umana consistenza. Raggruppatisi e infine scomparsi tra il verde, li abbiamo ritrovati sulle sponde di un piccolo lago schierati in fila uno dietro l’altro in una lenta processione. Nell’avanzare passo dopo passo, sistematicamente ripetendo gesti con una sola gamba, con due, accompagnati da apertura di braccia, sinuosità del busto, vibrazione di tutto il corpo, sembravano disegnare uno stormo in viaggio a terra fino a svanire al nostro sguardo, puntini lontani tra la vegetazione che li accoglie come sue creature.
‒ Giuseppe Distefano
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