Non di sola arte… Reportage dalla Biennale Danza di Venezia
Resoconto di alcuni spettacoli della rassegna lagunare. Con i ritorni di grandi nomi come William Forsythe e Sasha Waltz e deboli proposte di performance dove la danza è assente.
Cinguettio di uccelli. A tratti. Il resto è silenzio assoluto. Si sente solo il respiro dei ballerini. Per quaranta minuti assistiamo a un turbinio di energia cinetica, di pura danza. Che è musica visiva. Solo poche note atonali – brevi estratti da Natura pieces from piano di Morton Feldman – sottendono ai duetti giocosi, ironici, meccanici, dei sette interpreti della prima parte di A Quiet Evening of Dance di William Forsythe (già visto in Italia lo scorso anno). Qui il coreografo ha assemblato dei brevi pezzi del suo corpus di opere – Dialogue, Catalogue, e Prologue – affidandoli a sette danzatori dalla lunga esperienza con quel suo vocabolario che ha rivoluzionato i codici della danza accademica.
LA MAESTRIA DI WILLIAM FORSYTHE
Forsythe, sappiamo, sperimentatore a oltranza, proveniente da una ferrea scuola balanchiniana, ha lavorato dal di dentro il balletto classico decostruendone il linguaggio e ricomponendolo su linee di movimento originate da punti inattesi del corpo, contribuendo così a mutare radicalmente il modo di creare, pensare e strutturare il movimento e la coreografia.
La prima parte di A Quiet Evening of Dance è un catalogo corporeo disegnato dal ritmo e dall’energia di tutte le articolazioni – ginocchia, gomiti, polsi, spalle, punte dei piedi – impegnate nella destrutturazione delle posizioni del classico reinterpretato nelle sue innumerevoli varianti. Posture che si dissolvono e s’impennano, deviano le traiettorie, sciolgono la loro tensione in nuovi equilibri. Le coppie, tra entrate e uscite continue, disegnano linee ardite nello spazio nudo, imprimendo un virtuosismo che ben si manifesta verso il finale della prima parte con la ripresa di un duetto del 2015, Dialogue, con i due interpreti maschili (originariamente pensato al femminile) che riprendono i movimenti l’uno dell’altro con gesti rapidi e complessi.
Prima però avremo visto altri dialoghi raccolti nel trittico iniziale suddiviso in Prologue/Catalogue/Epilogue. In quest’ultimo si mette in mostra un sorprendente danzatore, Rauf “Rubber Legz” Yasit, che contorce il corpo, a terra e in piedi, in spericolate contaminazioni di hip-hop e breakdance, mentre avvolge e intreccia le braccia dentro le gambe, attorno alla testa, con una velocità e complessità mozzafiato. Alla prima parte, forse troppo cerebrale ma sicuramente fantasiosa nella struttura, subentra la seconda, Seventeen/Twenty One, immersa nella musica barocca di Jean-Philippe Rameau. In t-shirt e canotte di diversi colori, e con lunghi guanti da sera dalle tinte accese che evidenziano tutta una serie di contrappunti delle braccia nel fluire dei movimenti del corpo, i danzatori brillano di una leggerezza esemplare nella teatralità dell’insieme. Sono duetti, terzetti, ensemble, che mescolano con naturalezza e ironia stili e tecniche che mutano dal puro neoclassico al moderno popping con le contrazioni e vibrazioni tipiche, all’improvvisazione, al locking, e a tutta una gamma di movimenti ariosi, intrecciati, pulsanti, dove c’è spazio per il singolo osservato a turno dal resto gruppo. Immaginando una sorta di neobarocco Forsythe rielabora in maniera contemporanea le danze di corte con una stratificazione di segni ancora una volta geniale nel rendere visivo il ritmo interno della musica e la comunione dei segni.
UN ALTRO MAESTRO: SASHA WALTZ
A illuminare, invece, sotto un’altra luce, la struttura classica della musica di Schubert è uno spettacolo storico, del 2004, di Sasha Waltz: Impromptus. Un dialogo tra danza e musica su quattro Lieder schubertiani e cinque pagine di pianoforte solo, che ristruttura il corpo e lo spazio costituito da due pedane inclinate e un grande pannello sghembo color ocra. Al flusso continuo di danza della prima parte con assoli, duetti, momenti d’insieme anche nel silenzio, segue una seconda parte più “espressionista” con ricorso a elementi concreti quali stivaloni pieni d’acqua indossati dai danzatori, vernici rosso sangue, disegni a terra, botola con piscina. Lo spettacolo è ancor oggi uno sguardo feroce del vivere, della solitudine e dello stare accanto.
FRA DANZA E MUSICA
Si coglie una particolare sintonia umana e artistica tra l’islandese coreografa e danzatrice Bára Sigfúsdóttir e il musicista norvegese Eivind Lønning nel duetto Tide. Si avverte una tensione comunicativa suscitata dal movimento da lei eseguito, e dai suoni, decisi o improvvisati, che può emettere la tromba di lui. Dal suo strumento, soffiandovi, Lønning fa scaturire lo sciabordio del mare, il rumore del vento, di uno stormo di uccelli, di fruscii e di suoni armoniosi di natura, quindi di melodie accennate, che creano l’ambiente e l’atmosfera per la danza rigorosa e improvvisata della bravissima danzatrice.
Tra chiarezza e ambiguità, aspettativa e sorpresa, agendo su più strati, trasformando e riprendendo quanto già trovato, articola il suo corpo a terra e in verticale con impressionanti movimenti minimi di mani e di piedi, di posture disarticolate, morbide, scattanti. E insieme al trombettista si restituiscono connessioni e influenze nello scambio ritmico: chi segue chi? È lui che detta il ritmo o è lei che lo mostra a lui producendo dei movimenti? Ed è questo ascolto reciproco a generare una performance di grande impatto emozionale.
ALCUNE PERPLESSITÀ
Decisamente originale, divertente, bizzarra, intelligente, a tratti inquietante, la performance Forecasting del duo italo-croato Giuseppe Chico e Barbara Matijevic. Posizionandosi in diversi modi dietro lo schermo di un piccolo computer sistemato su un piedistallo, Matijevic si inserisce con le azioni e i gesti di una mano, un braccio, una gamba, la bocca o il viso, parlando e commentando sui filmati e le immagini che si susseguono nel display prolungando così le figure nel suo dettaglio, come se lei fosse un tutt’uno o parte di esse. Lo schermo diventa protesi ed estensione del sé reale. Quelle che vediamo sono immagini di ogni genere: di pubblicità, di cucina, di tutorial, di animali, di situazioni strambe, kitsch, anche rivoltanti, di filmati amatoriali raccolti su Youtube, quel mondo anarchico di Internet dove tutto è di tutti. Senza ritegno. Tutta la prestazione ideata da Chico e Matijevic genera divertimento, umorismo e curiosità per il susseguirsi di sequenze con le quali la performer via via si relaziona. Questo gorgo di frammenti decontestualizzati da ogni regola, dove la realtà fisica si confonde con quella virtuale delle immagini bidimensionali, vuole riflettere sulla nostra preoccupante condizione di voyeur del web, di dipendenza social, di ammorbamento delle coscienze in nome della conoscenza a portata di mano. Attento ai fenomeni sociologici il duo continua la ricerca su nuove modalità di narrazione con la tecnologia. Ci si chiede semplicemente cosa c’entri uno spettacolo, giocato com’è tutto con la parola e l’immagine, con la Biennale Danza, o con altri festival simili che lo hanno ospitato, dove la danza è totalmente assente. Domanda legittima che non pochi spettatori si sono posti.
Stessa perplessità per lo spettacolo Bunny degli artisti Luke George e Daniel Kok. Il titolo fa riferimento al coniglio, il soprannome dato a una persona legata in catene a una corda – sospeso o a terra, impossibilitato a muoversi, e dipendente dall’altro – da parte di un “rigger”, cioè colui che lega. Esplorando, quindi, le dinamiche che s’instaurano tra il “rigger” e il “bunny”, la performance mira a coinvolgere il pubblico – disposto intorno alla scena piena di oggetti colorati di uso quotidiano, osservatore passivo, poi chiamato in causa col suo consenso – nel gioco fra potere e sottomissione. Il duo utilizza le proprietà fisiche di corde e nodi per fare e disfare, e determinare i confini del desiderio sessuale, della fiducia, dell’adesione e della condivisione tra artista e spettatore, volendo liberare la tensione e i desideri collettivi. Forse di qualcuno, certo non di tutti. Insomma una pratica del boundage – vicino a quella sadomaso – in forma di performance, con solo alcuni momenti di danza (?) o banali movimenti, che fa sorridere, forse irritare, o annoiare, ma della quale sinceramente non si sente l’utilità, né si coglie il senso politico che si voleva sottendere, limitandosi soltanto ad una sterile esperienza estetica.
PLAUSO PER LA BIENNALE COLLEGE
Bella la prova dei giovani della Biennale College Danzatori con un pezzo cult di Trisha Brown, la grande signora del postmodern americano scomparsa nel 2017 all’età di ottant’anni. Set and reset/Reset, coreografia del 1983 su musica di Laurie Anderson, che ha avuto una nuova vita nel rifacimento della compagnia inglese Candoco, offre nel suo processo di ricostruzione, un’esplorazione delle possibilità che hanno gli interpreti di creare una nuova versione. Ed ecco i giovani danzatori, in svolazzanti costumi bianchi, attraversare la scena, entrare e uscire confondendo le traiettorie, virare i movimenti con saltelli e camminate. È un flusso inarrestabile di corse, cadute improvvise, slanci giocosi, prese schivate. Sembrano figure musicali il cui accumulo, e scioglimento continuo, di movimento produce una fluidità organica, ancor oggi, suadente e ipnotica.
– Giuseppe Distefano
www.labiennale.org/it/danza/2019
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