Più leggera di una donna. Intervista a Kristina Norman
L’astronauta Samantha Cristoforetti e le badanti giunte in Italia per salvare le proprie famiglie dalla povertà. Riflette sui legami tra questi due modelli femminili la performance-documentario “Lighter Than Woman” di Kristina Norman, in scena al Santarcangelo Festival.
Il mondo sospeso di Samantha Cristoforetti e il fardello da sopportare di una badante lontana dal proprio Paese. Il peso e l’assenza di gravità, le facce di una stessa medaglia che Kristina Norman (Tallinn, 1979) cerca di scandagliare con la sua performance-documentario Lighter Than Woman in scena a Santarcangelo Festival fino al 14 luglio. Di cosa si parla quando si affronta l’emancipazione femminile in Italia? E come le badanti, figure socialmente invisibili, si instaurano nel contesto italiano? Ne abbiamo parlato con l’artista estone che ha esplorato e filmato questo universo femminile grazie alle residenze creative a Santarcangelo e a Bologna nell’ambito di Atlas of Transitions Biennale.
Lighter Than Woman è il titolo della performance-documentario in programma al Festival Santarcangelo. Quali sono stati gli elementi che hanno portato a identificare il tuo lavoro con questa frase?
Potrebbe sembrare assurdo, ma questo lavoro parla di badanti e di Samantha Cristoforetti, prima donna italiana andata nello spazio. L’accostamento è nato proprio da un paradosso. È affascinante vedere come le donne immigrate si facciano carico di persone anziane, a volte sollevando letteralmente il corpo di altri, e si precludano la possibilità di prendersi cura dei propri famigliari. In questo senso penso che le badanti siano un fenomeno incredibilmente poetico. È arrivato quasi spontaneo pensare all’assenza di gravità di una donna italiana che migra verso un’altra condizione fisica. Per quanto diverse, c’è un filo conduttore in queste storie. Lighter Than Woman, dunque, affronta la gravità e tenta di sconfiggerla.
La performance, nata durante la tua residenza creativa a Santarcangelo e Bologna nel contesto di Atlas of Transitions Biennale, vede come protagoniste un gruppo di donne con differenti background. Perché hai scelto di esplorare l’universo femminile, nello specifico di filmare delle badanti, poetesse, all’interno del loro contesto lavorativo?
Mi incuriosiva soprattutto constatare come questa tipologia di lavoro fosse ricoperta principalmente da donne. Una badante ha una missione: salvare la sua famiglia dalla povertà. Migra verso un Paese straniero come un’astronauta che, a sua volta, ha come scopo di vita quello di migrare nello spazio per raggiungere l’assenza di gravità. Una badante lascia la sua casa, i suoi affetti, la sua carriera, la sua vita, ritrovandosi nello stesso status aleatorio di un cosmonauta, sospesa nel mezzo, sentendo inevitabilmente di non appartenere a nessun luogo, percependo la condizione emotiva tipica del migrante.
A Bologna e Santarcangelo ho incontrato una comunità di badanti, per lo più donne immigrate da Paesi emersi dalle rovine dell’Unione Sovietica, a me familiare essendo nata in Estonia quando ancora faceva parte di quella realtà.
In seguito ho approfondito studi che mostravano l’Italia come una delle società più emancipate. E per me tutto si è fatto più chiaro: le badanti a poco a poco sono diventate un sottoprodotto dell’emancipazione femminile, assumendo un ruolo che prima apparteneva alle donne italiane. Alla fine della mia ricerca la situazione, quindi, mi appariva molto più complessa.
Esplori da sempre il potenziale politico che l’arte contemporanea offre quando si approccia a tematiche attuali, dai diritti umani alla memoria storica. Quali sono le conclusioni della ricerca sviluppata con Lighter Than Woman?
Sia in Europa che in Italia la società sta diventando sempre più conservatrice, si oppone fermamente all’immigrazione e si aggrappa saldamente al modello di famiglia tradizionale. Ormai i paradossi come questi sono il fulcro della nostra epoca. Infatti, secondo le statistiche, c’è una donna immigrata all’interno di più di due milioni di famiglie italiane. Durante la mia ricerca, nei nuclei a cui ho fatto visita era sempre una donna ex-socialista ad assumere il ruolo di custode delle tradizioni della famiglia, partendo dalla cura degli anziani fino alla cucina, al lavoro a maglia e al ricamo.
Cosa pensi delle diverse correnti femministe?
Sono nuova alla teoria femminista, mi ci sento legata soprattutto attraverso un sentimento di giustizia sociale. Nei miei primi lavori artistici ho fatto ricerche sul nazionalismo da un punto di vista costruttivista. Come dice Judith Butler, ogni essere umano è soggetto al cambiamento, il modo in cui una persona vuole essere vista o in cui vuole posizionarsi all’interno della società è sempre un qualcosa di performativo.
Ciò che non posso condividere è la visione essenzialista. Secondo questa teoria le donne amano intrinsecamente prendersi cura delle loro famiglie e delle loro case. Teoria che, in modo chiaro e scaltro, viene usata dal sistema capitalista per indirizzare le risorse altrove. L’essenzialismo di genere è innanzitutto un modo per sfruttare le donne.
Cosa vuol dire quindi essere donna oggi? Come è cambiato il concetto di emancipazione?
Dipende dai punti di vista. Guardando all’est dall’occidente, sembra in un modo. Guardando all’occidente dall’est, sembra in un altro. E guardando in giù dall’orbita terrestre sembra ancora diverso. Per me, l’assenza di peso è il tema centrale della nostra epoca. Molti di noi vivono la condizione delle badanti: l’essere in una zona grigia dell’esistenza, non del tutto sicuri del futuro prossimo, dove i nostri luoghi di lavoro diventano le nostre case e le nostre case i nostri luoghi di lavoro. È un’esistenza precaria. La Gravità Zero del sistema sociale sembra essere la nuova condizione umana. È difficile da evitare, specialmente per una donna. Metaforicamente, l’unica a poterlo fare, forse, è Samantha Cristoforetti. Lei, icona dell’emancipazione della donna italiana, all’apice della sua carriera, col suo fluttuare, non può che donare speranza.
‒ Alessandra Corsini
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