Teatro. Le visioni di Lenz ispirate a Calderón de la Barca
All’interno del complesso monumentale della Pilotta di Parma, tra letti ospedalieri e dipinti seicenteschi, nello smarrimento della propria identità, si compie un viaggio onirico attraverso la riscrittura scenica del capolavoro barocco “La Vida es Sueño”.
A un anno da Il Gran Teatro del Mondo, che si svolgeva dentro il magnifico Teatro Farnese, torniamo all’interno dello stesso spazio, spostandoci stavolta nella Sala dell’Ala Nord del complesso monumentale della Pilotta per un’altra visione trasfigurante sulla poetica di Calderón de la Barca: La Vida es Sueño, il nuovo spettacolo site specific di Lenz Fondazione. Ancora una volta, creatori di bellezza e di senso, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto creano un’immersione esperienziale attraverso un’installazione performativa che mette in luce una ricerca estetica tra passato e presente (Il passato imminente è il titolo del progetto triennale che culminerà nel 2020 per Parma Capitale della Cultura con La vita è sogno).
Forme e segni contemporanei affiorano e si rifrangono nelle opere letterarie, musicali o solo visive che gli artisti affrontano. Le suggestioni sono tante già nell’attraversare le ampie sale del museo, fino a giungere nello spazio deputato sotto l’imponente cielo-traliccio in tubi innocenti creato dall’architetto Guido Canali negli Anni Settanta, e, a terra, tredici spogli letti ospedalieri disposti in fila e reclinati su un lato, che presto si animeranno di presenze umane. Su questi oggetti materici scorreranno, nella metafora dei rimandi, evocazioni di sofferenza, di nascita, di salute, di trapasso, di risveglio, di narcosi, di abbaglio. “Incuneandosi tra il sogno e il risveglio” – spiega Pititto –, “la brandina sanitaria, spogliata di materassi e lenzuola, evoca non solo il tempo sospeso dell’agonia, la fessura tra la vita e la morte, ma anche il giaciglio di contenzione manicomiale, luogo residuale in cui l’unico spazio di libertà possibile è nella vita onirica”. Nel rispecchiamento tra il sopra e il sotto dell’ampio spazio museale lungo trentacinque metri, si aggiungono, in un dialogo visivo pregnante, una fila di dipinti (della collezione seicentesca) di Deposizioni, Compianti, Annunciazioni, opere di Ribera, Canaletto, Murillo, Lanfranco, Schedoni, Spada, van Dyck, anche queste in dialogo con, lungo le pareti, le immagini video – “imagoturgie” – riproducenti la figura penitente di Giobbe del dipinto di Antonio de Pereda. Su di essa si sovrappone, nella medesima postura con la mano sul cuore e lo sguardo rivolto a Dio, quella in leggerissimo movimento di alcuni performer adolescenti dell’auto sacramental, e, successivamente, di un altro interprete, un uomo – l’attore “sensibile” Paolo Maccini – per il quale “il confine tra sogno e mondo reale, tra finzione e realtà, è diventato sottile, interscambiabile, tra un dentro e un fuori che determina la libertà di poter decidere, come di non decidere”.
LIBERO ARBITRIO E IDENTITÀ
È la questione del libero arbitrio, dello smarrimento della propria identità, della propria storia individuale, che nella risonanza della verità dei corpi in scena, alcuni provati nel fisico e nella psiche, si fa ancora più incombente. Ne La vita è sogno, Calderón trasfonde ed emblematizza la concezione poetica che informa la sua intera opera: la vita è mera illusione, un sogno dal quale l’uomo si desterà oltre il tempo e lo spazio. Questa è proprio la conclusione alla quale perviene il protagonista Sigismondo, straziato tra cielo e terra, carne e spirito, natura ferina e umana. La singolare avventura del principe polacco della vicenda adombra la parabola dell’umanità e del mondo, dalla confusione primordiale di elementi e passioni al conseguimento dell’ordine e del raziocinio. La riscrittura, densamente poetica del testo, compiuta da Pititto, viaggia su allegorie che non seguono la narrazione del capolavoro seicentesco, ma si fa portatrice di versi di risonanze esistenziali, di inquietudini emotive, di equilibri precari, di transfert umanissimi, di dubbi e di domande senza tempo sulla fragile precarietà umana, malata o sana, affidate a quindici performer di età compresa tra gli otto e gli ottant’anni. Sono essi i quattro elementi del cosmo primigenio, Acqua, Terra, Aria, Fuoco, anziani dai vistosi colori delle calzamaglie; l’Uomo e il suo doppio Bambino, tenuti e sciolti al collare-guinzaglio di catene sostituite poi da bianche gorgiere; il tentatore Lucifero, principe delle Tenebre; e, ancora, le personificazioni del Potere, della Sapienza, dell’Amore, dell’Ombra, della Luce, dell’Intelletto, dell’Arbitrio, della Devozione. Alcuni, gli adolescenti, hanno maschere grottesche e chitarre; altri indossano cappelli; tutti dei corpetti su body aderenti: un mix di colori che rimanda alla pittura barocca circostante, mentre la musica di Claudio Rocchetti crea un ambiente sonoro fortemente evocativo. E sono di struggente forza emotiva alcune sequenze. Come quella dell’Uomo e il suo doppio Bambino che si sfiorano e toccano il volto, le mani, specchiandosi l’uno nell’altro; o una sorta di “visita medica” che compie lentamente fra i letti fermandosi su ciascun “paziente”, descrivendone la malattia o l’aspetto, e con una domanda ricorrente: “è meglio soffrire o morire?”. Infine un piccolo triciclo avanza, portato da una donna. Su di esso vi sale il Bambino. Percorrendo a ritroso la lunga sala, torna al punto iniziale sostando davanti al cumulo di stracci, massa cinerea e informe dal quale era uscito.
‒ Giuseppe Distefano
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