La danza, la Cina e l’Est Europa. Al Festival Oriente Occidente di Rovereto
Lo sguardo a Oriente, alle connessioni tra l’Est e l’Ovest del mondo, oltre alle contaminazioni tra danza, acrobazia, circo contemporaneo, hip hop, ha caratterizzato la ricca e articolata edizione 2019 del Festival Oriente Occidente di Rovereto.
La Cina e i suoi scambi sulla Via della Seta. L’Europa dell’Est e il rapporto tra creatività e libertà. I cambiamenti climatici e la gestione dei flussi migratori. Il mondo contemporaneo, le sue gabbie, le sue prospettive. Questo lo sguardo, attraverso i temi più discussi della contemporaneità e un pluralismo di visioni, che ha caratterizzato il programma della 39esima edizione del festival. Tra le presenze: la Guangdong Modern Dance Company, la più antica compagnia di danza moderna della Cina, con un lavoro della direttrice artistica Liu Qi sulle relazioni umane; i diciannove Monaci Guerrieri del Tempio di Shaolin, arrivati dalla provincia cinese di Henan, protagonisti di uno dei lavori più apprezzati del coreografo belga Sidi Larbi Cherkaoui; la sudcoreana Eun-me Ahn, con una coloratissima esplorazione delle similitudini e delle differenze artistiche tra il Paese di origine della coreografa e la Corea del Nord. Forza e vulnerabilità umane unite a realismo poetico hanno caratterizzano il lavoro di Stopgap Dance Company, compagnia inglese che integra artisti abili e disabili per superare le divisioni e trovare nuove modalità espressive e di movimento. Un focus sull’evoluzione e gli sviluppi della coreografia tra Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia ha portato al festival la fisicità spinta di Pál Frenák, il giovane Martin Talaga, e la giovane promessa dell’Est Europa Beatrix Simkó, autrice del duetto con la finlandese Jenna Jalonen sul tema delle origini e dell’isolamento in Europa dei loro Paesi. Abbiamo assistito a tre di questi spettacoli.
GUANGDONG MODERN DANCE COMPANY
Tecnicamente ineccepibili. Veloci, morbidi, acrobatici, dalla gestualità potente, fluida, rigorosa. Riempiono la scena con una danza senza sosta. Da un iniziale assolo rotatorio sotto un fascio di luce si sfuma su altri soli, mentre, incalzati dalle note pianistiche, si formano gruppi e duetti alternati a ingressi e uscite che lasciano posto al formarsi di sempre nuovi flussi e nuove combinazioni. I danzatori della Guandong Modern Dance Company – compagnia pioniera della danza contemporanea in Cina, di matrice modern americana, da quasi trent’anni in attività ‒ catturano gli occhi, aprono il nostro sguardo a infinite immagini, evocazioni, pensieri. Sono le molte sfaccettature di quel concetto buddista che dice: “Un piccolo seme può rivelare tutte le meraviglie del mondo”. Per Liu Qi ‒ direttrice artistica e coreografa della celebre compagnia cinese ‒ la danza è questo seme, portatrice di smisurate sfaccettature, dispiegata in un gioco d’interazioni, connessioni di corpi e geometrie spaziali. Sumeru prende il titolo dal nome della montagna al centro della cosmologia buddista, e dall’idea creativa della massima dell’Illuminato sopra citata. Ed è attraverso l’energia cinetica dei magnifici ballerini che si esplora il potere della natura di quel monte altissimo di un’antica favola attorno al quale ci sono otto montagne e otto mari. Assecondati dalla musica di Kung Chi Shing e di Tom Lee Pettersen, brillano duetti di fattura neoclassica spinta in tensioni ardite, in rotazioni accennate anche di breakdance, in terzetti con prese e voli, quartetti con al centro una donna, coralità a terra e in spostamenti spaziali di linee perfette, in un’incessante indagine di movimento che culmina nel rutilante scomporsi dell’ensemble come schegge senza più coesione. Il linguaggio della Guandong è assolutamente contemporaneo, e rispecchia bene il dinamismo di un Paese come la Cina dalla realtà sfaccettata, in cui tradizione e sperimentazione coesistono e dialogano in modo complesso.
PÁL FRENÁK
In Birdie è riconoscibile il segno di Pál Frenák, il 62enne coreografo ungherese formatosi in Francia nella seconda metà degli Anni Ottanta alle tecniche Cunningham e Limòn, e approdato a un suo specifico linguaggio scenico e del corpo che include elementi del circo e del teatro. Funge da foresta l’imponente piramide metallica che occupa tutto il palcoscenico. I danzatori vi scivolano dentro, attorno, sopra, inerpicandosi, sgusciando, saltando come scimmie, appollaiandosi come uccelli sopra rami. Questa labirintica scenografia è il luogo degli intrecci umani, delle barriere psicologiche, fisiche, sociali; degli incontri e delle lotte, delle fragilità e della forza, della fuga e del ritorno, dell’isolamento e della libertà. Una gamma di sentimenti umani rappresentata – sulla musica elettroacustica del berlinese Norman Levy ‒da corpi energici, striscianti, dall’articolazione dei muscoli, dagli avviluppamenti di coppie, dalla possanza scultorea dei movimenti evidenziati dai corpi seminudi in body nero e solo uno di essi in bianco e con gli occhi bendati. In questo flusso gestuale e acrobatico, un po’ ripetitivo, irrompe improvvisamente una nota ironica con l’ingresso di una donna di colore, altissima, coi tacchi e una giacca bianca, corteggiata buffamente da tre uomini sulle note musicali remixate di Casta diva dalla Tosca pucciniana. Seguirà una sequenza di tutto il gruppo vestito di rosa e al passo di un tango in chiave rap; quindi un’altra sequenza sulle note de La vie en rose. Di tutta quest’ultima parte, in pieno contrasto, francamente ci sfugge il significato. Il finale vira sulla presenza del violoncellista Endre Kertsz e di una donna nuda che stancamente si trascina e si dibatte in scena osservata dagli uomini accovacciati sulla gabbia metallica. Mentre le luci si spengono sulle note di Bach, il buio ci lascia il suono del battito del cuore.
BEATRIX SIMKÓ E JENNA JALONEN
Ergendosi a simboli di un’Europa ancora in cerca di unità, l’ungherese Beatrix Simkó e la finlandese Jenna Jalonen, l’una mora, l’altra bionda, hanno creato un sodalizio artistico autonomo dopo l’esperienza comune come danzatrici nella compagnia ungherese Eva Duda Dance Company. Nello spettacolo Long time no see! inscenano una divertente performance nata dalla considerazione che le loro lingue hanno una radice comune, e cioè che sono le uniche ugrofinniche in Europa. Da qui la domanda: “Potremo reciprocamente comprenderci attraverso le parole, oppure ricorrendo a una metacomunicazione?”. Esplorano così, oltre al linguaggio verbale, similitudini e diversità fisiche, gesti e posture che sfociano in azioni teatrali o in movimenti danzati traslati da concetti culturali e sociali. Sullo sfondo di immagini di natura, di alberi, laghi e cieli stellati, tra rumori d’acqua, di organo e vociare di gente, via via accennano a danze popolari a passi marziali e a giochi comuni; si confrontano in dialoghi surreali raccontando, ciascuna, storie di cervi e di cigni. Si scoprono diverse e lontane insultandosi; sciorinano stereotipi, condividono depressione e malinconia; si uniscono nei differenti costumi per un ballo da suffragette televisive, mentre una voce maschile fuori campo sciorina un lungo discorso sull’artista, sulle nazionalità e le lingue; approdano quindi nude dentro una sauna dove, bevendo e discutendo, l’ironico dialogo si trasforma in un groviglio fisico dei corpi. Rivestitesi danzano solitarie tra giri e lavacri fino a ingaggiare una gara tra le due nazioni che rappresentano, trasformandosi in concorrenti e coinvolgendo due persone del pubblico. Nel finale sono entrambe vittoriose. Debole nella struttura drammaturgica e coreografica, Long time no see!, nel suo confondere registri così diversi che non giungono ad amalgamarsi, sembra girare a vuoto, mancando un fulcro chiaro.
‒ Giuseppe Distefano
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