Teatro. Gli scavi immaginari di Deflorian / Tagliarini
Dopo il debutto al festival Short Theatre di Roma, la performance “Scavi” di Deflorian/Tagliarini approda a Potenza.
L’indagine teatrale che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini conducono da anni sui miti di oggi prosegue con un nuovo episodio, la performance Scavi, vista in prima a Roma durante la 14esima edizione del festival Short Theatre 2019, come sempre ricco di proposte innovative da tutta Europa, tra performance, installazioni, teatro e dj set. Lo spettacolo sarà in replica a Potenza per il Festival Città delle 100 scale, il 24 ottobre. Iniziata con Rewind, un lavoro del 2008 su Café Muller di Pina Bausch, la ricerca del duo teatrale romano affronta, intrecciandoli con il proprio procedimento creativo, i miti contemporanei, incarnati nelle opere, nelle vite e nei corpi degli artisti che più hanno segnato la loro esperienza al contempo di spettatori e attori.
Scavi racconta del loro aggirarsi nei materiali di archivio del Fondo Antonioni a Ferrara, tra carte, lettere e pellicole non montate del film Deserto Rosso, vincitore alla Biennale di Venezia del 1964 e in cui il regista Antonioni aveva ritratto con indimenticabili primi piani una splendida quanto triste e misteriosa Monica Vitti sullo sfondo della periferia industriale di Ferrara. Nella brochure che accompagna la performance, i due autori definiscono il loro procedimento poetico di scavo come un lavoro di osservazione paziente di tanti dettagli che appaiono al loro sguardo come le superfici di un iceberg galleggiante. E così loro, novelli archeologi post-moderni, più simili alla nota coppia flaubertiana piuttosto che a due ricercatori di reperti, noncuranti del peso imponente della parte sommersa, ne osservano incantati quella visibile che galleggia, intrecciando e giustapponendo, uno accanto all’altro, senza alcun ordine scientifico, i reperti misteriosi che più toccano la loro curiosità, le loro memorie personali e generazionali, spesso condivisibili con quelle dei loro spettatori.
LO SPETTACOLO
La performance si snoda nell’arco di tempo di una quarantina di minuti, prendendo la forma apparente di una conversazione che si svolge fra tre persone, Daria Deflorian Antonio Tagliarini e Francesco Alberici, giovane coautore e attore il cui taglio della barba accenna a un perturbante giovane sosia dello stesso Tagliarini. Spostandosi tra una piccola assemblea di trenta spettatori contati, seduta su comode poltrone vintage sparpagliate nell’informale quanto accogliente foyer delle carrozzerie|n.o.t. – un attivissimo e ormai famoso spazio romano dedicato al teatro di ricerca e diretto da Maura Teofili e Francesco Montagna ‒, i tre cambiano spesso posto sulle uniche tre poltrone lasciate vuote, narrandosi l’un l’altro l’esito delle loro ricerche nell’archivio ferrarese. Stimolati a voltarsi spesso per ascoltare e vedere chi dei tre stia parlando, gli astanti seguono il dipanarsi dei racconti tratti dal diario di uno degli assistenti alla regia, spesso intercalati da domande e risposte che gli attori rivolgono a sé stessi e agli altri. Sembrano chiacchiere improvvisate lì per lì, divagazioni che restano sospese, domande che non chiedono risposte, ma che sottintendono la propria inefficacia, racconti enfatici che sottolineano con stupore un vuoto esistenziale fallimentare, che sempre fa da sfondo alle pièce del duo.
Seduti in quel foyer, così vicini ai corpi veri degli attori, gli spettatori sentono assottigliarsi la distanza tra loro e gli attori: non si scopre niente di definitivo sulle tante micro storie che riguardano il film, a partire dalla celebre battuta di Monica Vitti “Mi fanno male i capelli”, che sembrerebbe tratta da una poesia di Amelia Rosselli, ma poi forse non è così. I capelli diventano un pretesto per parlare delle discussioni tra la Vitti e il regista, della loro storia d’amore durata un film, ma anche dei capelli cotonati della madre di Francesco Alberici e del fastidio della Deflorian per la spazzola materna.
L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA
I ricordi riaffiorano nella sala, diventano partecipati, quasi famigliari, e ricostruiscono con efficacia il mondo degli spettatori del film, tra cui sono gli stessi attori. Si scava nelle microstorie di quei miti che più o meno tutti ricordano perché visti al cinema o in televisione, e sul rapporto tra la vita degli attori sul set e quella reale, dagli Anni Sessanta fino al mistero della malattia che ha sottratto l’attrice agli sguardi dei media da diversi anni, diventando lei stessa testimone tragicamente impossibile della propria esistenza. Deserto rosso era anche il film in cui il regista aveva sperimentato un utilizzo estetico e narrativo del colore cinematografico e l’inizio di Scavi rammemora proprio la prima inquadratura del film con la Vitti in cappotto verde e il bambino in arancione, unici dettagli colorati su un paesaggio industriale grigio e fumoso. Anche la conclusione ritorna sul colore, con un accenno a un possibile finale che Antonioni non realizzò mai ma che Tagliarini-Deflorian-Alberici utilizzano drammaturgicamente per trasportare in un paesaggio immaginario i loro spettatori, anche solo per un attimo, con un sorprendente ed efficace guizzo teatrale. “Vedo quello che immagino?” domandava Francesco Alberici durante la performance, e a giudicare dagli sguardi protesi verso la porta del teatro che si apre, nel finale, si direbbe proprio di sì.
‒ Maria Cristina Reggio
http://www.defloriantagliarini.eu/
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