Quali futuri possibili? Il teatro emergente italiano al Romaeuropa Festival
La terza edizione di “Anni Luce”, rassegna del Romaeuropa Festival dedicata alle realtà emergenti della scena teatrale italiana, torna a interrogarsi sul presente e i suoi futuri possibili. La Ballata dei Lenna, Liv Ferracchiati, Industria Indipendente e Dante Antonelli propongono il proprio sguardo su ciò che si è chiamati a essere nella contemporaneità, soprattutto in quanto giovani e artisti.
“A trentanove anni luce da qui c’è un altro sistema solare che forse nasconde la vita. Forse”. Un universo lontano, la possibilità di altre forme di esistenza, altri linguaggi, altri modi di comunicare. Forse.
Fluttuando nello spazio incognito, anche il teatro va alla ricerca di territori inesplorati. Dal 2017 il Romaeuropa Festival promuove Anni Luce, rassegna dedicata alle realtà emergenti della scena teatrale italiana. Curata da Maura Teofili ‒ Carrozzerie | n.o.t., la manifestazione si propone come osservatorio di futuri possibili, scegliendo ogni anno quattro artisti o compagnie del panorama nazionale per indagare nuovi sguardi e spazi di confronto. L’edizione 2019, Presente/Pretese/Generazioni, vede in scena dei ritorni, nomi già presentati ad Anni Luce negli anni scorsi. Si tratta, citando la curatrice, di “un secondo lancio, questa volta ancora più ambizioso e caparbio”. Accanto, dunque, a Liv Ferrachiati, Industria Indipendente e Dante Antonelli, l’unica “novità” in cartellone quest’anno è La Ballata dei Lenna, collettivo di ricerca teatrale di Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Selima Fieno.
Le proposte, diversissime tra loro per punti di partenza e di arrivo, intrecciano futuri, presenti e passati che, mescolandosi, rendono difficile distinguere tra realtà e distopia, memorie e premonizioni. A collegare le quattro performance è il tema dell’identità, di ciò che si è chiamati a essere, di come si sia esortati ad apparire, a incasellarsi in categorie eteroimposte, in quanto giovani e in quanto artisti.
INDUSTRIA INDIPENDENTE
Nel futuro immaginato da Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), le lobby eteronormate sono state sconfitte, la crisi climatica evitata, i conflitti, armati, sociali e di genere, finalmente debellati. Quattro ex-giovani, i trentenni di oggi proiettati nel 2059, vivono negli Stati Uniti d’Europa dove regna “la riconquistata armonia dell’essere umano con la natura e i suoi ritmi”. L’utopia armoniosa, tuttavia, si incrina presto in distopia. I protagonisti, che non a caso portano i nomi poetici degli animali più letali esistenti, vivono confinati in un centro Lullaby, sorta di casa di riposo in cui i settantenni sono costretti a ritirarsi, privati anzitempo dei loro beni, ereditati automaticamente dalla comunità giovanile al governo del nuovo mondo. Anche l’apparentemente conquistata armonia rivela la sua forma di oppressione. Nella nuova grammatica universale si sviluppa un’“angoscia flebile o un’euforia angosciosa”, che sfocia infine in una ribellione, dettata dal difetto dell’egoismo umano di non saper rinunciare ai desideri individuali a favore del bene collettivo. La tragedia aerobica scritta da Galli e Ruggeri pone dinanzi a un possibile futuro positivo, che è riuscito a declinarsi in un equilibrio sociale e naturale ma ancora infettato dal presente corrotto, cadendo, però, in un moralismo neanche troppo velato.
LIV FERRACCHIATI
Liv Ferracchiati pone l’accento su un aspetto politico/economico proprio del mondo teatrale cui appartiene: la famigerata categoria ministeriale degli Under 35. Tutti li vogliono per facilitare l’accaparramento di qualche finanziamento, ma gli Under 35 cincischiano. Sono “autoreferenziali, raffazzonati, figli di Mediaset”. Commedia con schianto. Struttura di un fallimento tragico è una piacevole satira sul sistema teatrale attuale e anche sugli stessi giovani artisti, smarriti e in cerca di conforto. E lo spettacolo, infatti, nonostante la forte ironia, rimane in certo modo confortante. Prendendo in giro l’autoreferenzialità di cui vengono tacciati i giovani autori, la commedia vi scivola quasi sbadatamente, non riuscendo così a criticare il sistema fino in fondo.
DANTE ANTONELLI
In Atto di adorazione, di Dante Antonelli, quattro adolescenti si preparano a una battaglia. A partire dai testi di Yukio Mishima, Antonelli e i performer, anch’essi autori della scena, mostrano una lotta contro le costrizioni: genitoriali, sociali, sessuali. Senza presunzione di essere manifesto o di raccontare una generazione, la performance scava nell’intimità di quattro ragazzi, ognuno con i propri traumi, insicurezze e disagi. Il racconto è scandito da una coreografia ispirata alle arti marziali, una danza non del tutto coordinata, a sottolineare l’individualità e la solitudine della battaglia. Eppure, questi giovani con “la vita sulla punta della lingua”, si ritrovano accomunati proprio da un senso di impaccio comune, un non saper stare nella propria pelle o nel proprio intorno, una difficoltà a comunicarsi e, soprattutto, uno sfrenato desiderio di esistere. Desiderio esaudito, forse eccessivamente, dal pubblico entusiasta, tanto da guadagnarsi due repliche straordinarie.
LA BALLATA DEI LENNA
Tra futuri distopici, parodie e narrazioni, Libya. Back Home di La Ballata dei Lenna, fra le proposte di quest’anno è quella più ancorata alla realtà. Miriam Selima Fieno accompagna gli spettatori in un viaggio alla ricerca delle sue origini, un desiderio personalissimo che si tramuta in cammino sulle tracce di un passato e un presente collettivo. “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?”. Ecco le domande, semplici e universali, cui l’attrice prova a rispondere, scavando sotto le fibre superficiali del tronco cavo che è la sua storia, così difficile da riempire e da comprendere. Alla piccola narrazione familiare si intreccia inevitabilmente la Storia e Fieno, con un pizzico di ironia, senza moralismi né tanta politica, trasporta il pubblico in una narrazione che ci riguarda da vicino. Dal colonialismo italiano in Libia a un presente ancora opprimente e violento, La Ballata dei Lenna richiama alla responsabilità nei confronti di un conflitto tenuto a distanza dall’ignoranza pigra in cui si tende spesso a crogiolarsi, dall’indolente volontà di agire. Certo, capire davvero è difficile e andare a vedere pare impossibile. Khalifa Abo Khraisse, regista e corrispondente da Tripoli per Internazionale, una delle voci che accompagnano il viaggio di Miriam, paragona la situazione a una stanza piena di schermi che mostrano contemporaneamente scene diverse. Il suono è assordante e cacofonico, le immagini caotiche, ed è difficile sia spiegare a chi non è nella stanza cosa significhi starci dentro, sia, per chi è al suo interno, intravedere ciò che accade fuori. Una realtà non confinata alla Libia, ma vera allo stesso modo a Roma o in qualsiasi luogo. Così come questi metaforici schermi confondono e offuscano la vista, in un crescendo drammatico verso la fine dello spettacolo alcuni fari puntano diretti al pubblico, abbagliandolo. L’intensità luminosa porta a riflettere su due versanti opposti. Da un lato, la scelta di lasciarsi accecare da tanta retorica su conflitti e violenze, molto più vicine di quanto non vorremmo ammettere, geograficamente, politicamente e storicamente. Dall’altro, un desiderio di illuminare queste realtà, di restituire visibilità e colore all’apatia cui si lascia troppo spesso prendere il sopravvento.
Le proposte giovanili della XXXIV edizione del Romaeuropa Festival non sconvolgono quanto a innovazione scenica, ma offrono ognuna a suo modo spaccati variegati e multiformi della contemporaneità, tanto sociale quanto artistica. Curiosa è la scelta curatoriale, al solo terzo anno della rassegna, di ripresentare ben tre compagnie, per quanto valide. Inevitabile meditare sulla situazione del teatro emergente in Italia. Possiamo solo augurarci che questi Anni Luce restino figurati, e che i futuri possibili, almeno quelli positivi, non siano così distanti.
‒ Margherita Dellantonio
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati