Händel tra i pozzi di petrolio: il Giulio Cesare alla Scala di Milano
Ambientazione nel Medio Oriente odierno, ricco di petrolio e di tensioni, per l'opera Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel, andata in scena alla Scala di Milano dal 18 ottobre al 2 novembre.
Accade raramente che la rappresentazione di un’opera barocca faccia parlare tanto di sé, e già da mesi prima della prima. Nel caso del Giulio Cesare scaligero il clamore è stato generato, come è noto, dal non possumus di Cecilia Bartoli, che nel giugno di quest’anno ha dato forfait, dopo la notizia della mancata conferma di Alexander Pereira alla guida del teatro milanese. Un clima di grande attesa ha dunque circondato l’allestimento di questa nuova produzione: innanzitutto perché si era ansiosi di vedere se chi ha sostituito la Bartoli nel ruolo di Cleopatra, ovvero Danielle De Niese, sarebbe stata in grado di reggere il confronto con la Cecilia nazionale (e diciamo subito che è stata bravissima). E poi perché lo spettacolo, con Giovanni Antonini alla direzione e Robert Carsen alla regia, aveva tutte le carte in regola per rafforzare il ruolo della Scala, tempio del belcanto ottocentesco, come punto di riferimento nel panorama delle messe in scena di opere barocche.
LA MESSA IN SCENA
A partire dal 18 ottobre e fino al 2 novembre il Giulio Cesare in Egitto ha preso forma e suoni sul palcoscenico scaligero, e le aspettative non sono andate deluse. Solo pochi mesi prima del Giulio, un altro capolavoro vocale händeliano di ampie dimensioni è risuonato nel celebre teatro: il 6 maggio scorso sir John Eliot Gardiner, alla testa dei suoi Monteverdi Choir e English Baroque Soloists, ha eseguito in forma semiscenica quello strano e affascinante incrocio tra un’opera e un oratorio che è la Semele. Gardiner ha probabilmente attinto (se è possibile farlo) la perfezione. Il Giulio Cesare non raggiunge certe vette, ma rappresenta comunque uno spettacolo di ottimo livello. Giovanni Antonini dirige con piglio sicuro musicisti e cantanti, valorizzando il dinamismo delle arie di battaglia e di tempesta e il pathos dei brani lenti, senza mai cadere nell’isterismo o nell’immobilità. Ottima l’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici: forse, a voler cercare il pelo nella buca, si sarebbe desiderato un pizzico di duttilità in più per giungere ai livelli straordinari cui Antonini, alla guida de Il Giardino Armonico, ci ha abituati.
LE VOCI
Se la cavano egregiamente i tre controtenori impegnati a ricoprire ruoli principali (anche se non si può eludere il problema rappresentato dal fatto di far cantare ai contraltisti – come avviene ormai sempre, ma in maniera, alla fine, ben poco filologica – le parti scritte per i castrati, quando le donne si rivelerebbero tendenzialmente più indicate, se non altro per la maggiore potenza vocale che di solito le contraddistingue, aspetto quest’ultimo che risulta centrale quando si mettono in scena opere barocche in un invaso ampio quale è quello dello Scala). A Bejun Mehta spetta la parte vasta e impegnativa del protagonista, un Cesare che il cantante sa rendere sempre credibile, sia che si tratti del bellicoso condottiero (si veda l’aria “Empio, dirò, tu sei”), sia quando il comandante veste i panni dell’innamorato, soggiogato dal fascino di Cleopatra. Il Tolomeo di Christophe Dumaux si segnala per l’emissione limpida e potente e per le doti attoriali dell’interprete, che dà vita a un macho superbo e meschino (un macho credibile con la voce di un controtenore, capite l’arditezza della sfida). Philippe Jaroussky nei panni di Sesto, figlio di Pompeo, si fa apprezzare soprattutto nei pezzi lenti e patetici (stupendo, anche per l’essenziale resa scenica delle carceri di Tolomeo, mediante quadrati di luce che spiovono dall’alto, è il duetto “Son nata a lagrimar” con la madre Cornelia, interpretata con trasporto da un’impeccabile Sara Mingardo). Quando, invece, Sesto si atteggia a vendicatore del padre, Jaroussky risulta (volutamente, si spera) goffo e infantile, e i queruli “Madre!” con cui spesso si rivolge a Cornelia non possono che richiamare alla mente il Jean Claude di Sensualità a corte (e tuttavia alla fine lo uccide davvero, il tiranno Tolomeo).
Su tutti spicca Cleopatra. Un po’ per il fascino che da un paio di millenni emana questa figura di sovrana astuta e passionale. Un po’ per la cura con cui in quest’opera Händel ne caratterizza il percorso psicologico. E un bel po’ per la presenza scenica e le doti vocali di Danielle De Niese, sempre in grado di caratterizzare al meglio gli “affetti” del personaggio, dalla Cleopatra seduttrice di “V’adoro, pupille” (uno dei momenti più alti della rappresentazione, con la danza ammaliante dell’egizia e delle nove Muse) alla Cleopatra sconsolata di “Piangerò la sorte mia” e poco dopo raggiante in “Da tempeste il legno infranto”.
IRONIA POP
Al successo dello spettacolo ha contribuito non poco anche la regia di Robert Carsen, che ha ambientato l’opera nel Medio Oriente odierno, ricco di petrolio e di tensioni, dove si incontrano e scontrano gli occidentali (o meglio gli americani, novelli romani alla conquista del mondo intero) e gli arabi. Niente di così originale, in verità: sempre più spesso le opere barocche, in uno sviluppo inversamente proporzionale rispetto al crescente storicismo della prassi esecutiva, vestono panni contemporanei; e questo vale in maniera particolare per il Giulio Cesare, di cui molti allestimenti degli ultimi decenni (e questo scaligero in primis) riprendono e variano la sensazionale regia di Peter Sellars, che alla metà degli Anni Ottanta aveva ambientato la vicenda lungo il bordo della piscina di un hotel del Cairo. Il lavoro di Carsen si lascia in ogni caso apprezzare per la vivacità e l’ironia pop e per il rispetto tributato alla centralità del canto e dei cantanti.
‒ Fabrizio Federici
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