Caino e Abele nella Valle dell’Eden. Lo spettacolo di Antonio Latella
Il regista Antonio Latella trasferisce sul palcoscenico il grande romanzo epico di John Steinbeck, dove bene e male si scontrano nel “goffo tentativo” ‒ come affermava lo scrittore americano ‒ “di spiegare l’inspiegabile”. Superbi gli attori. Dopo il debutto all’Arena del Sole di Bologna, le repliche al Morlacchi di Perugia, dal 27 novembre al 1° dicembre.
Sentivamo la mancanza delle sfide teatrali di Antonio Latella. Ci mancavano quei suoi affreschi imponenti che fanno gustare il teatro come esperienza collettiva, come rito che accomuna e muove gli animi intorno a temi antichi e nuovi, a visioni sempre attuali. Dai classici ai contemporanei, dalle tragedie alle favole (fra cui Shakespeare, Genet, Pasolini, Euripide, Tasso, Collodi); dal Don Chisciotte a (H)L_Dopa (tratto da Risvegli di Oliver Sacks), da Moby Dick a Francamente me ne infischio (epopea americana del film Via col vento), per citare solo alcuni dei lavori e degli autori affrontati, il regista sa teatralizzare – insieme alla fedele drammaturga Linda Dalisi – come pochi, e senza mai ripetersi, letteratura, cinema, scienza, dando sostanza e forma a un immaginario sempre pervasivo.
La Valle dell’Eden è la sua ultima sfida (Produzione Emilia Romagna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, e Stabile dell’Umbria), che fa i conti con il fluviale romanzo, in parte autobiografico, di John Steinbeck (1952), e con la celebre versione cinematografica di Elia Kazan (1955). Saga famigliare e moderna trasposizione del mito, del racconto biblico e della lotta fratricida di Caino e Abele, il romanzo rappresenta, con rara efficacia, il conflitto generazionale, l’eterno scontro tra padri e figli che contraddistingue tutte le società in febbrile evoluzione: un mondo post-edenico, segnato dal peccato originale e dal marchio di Caino. “È la storia del bene e del male” – scriveva lo stesso Steinbeck –, “della forza e della debolezza, dell’amore e dell’odio, della bellezza e della bruttezza… Doppi inseparabili”.
LA STORIA
Con La Valle dell’Eden lo scrittore ha esplorato più a fondo i suoi temi ricorrenti: il mistero dell’identità, l’ineffabilità dell’amore e le conseguenze tragiche della mancanza d’affetto. Affresco sociale dell’America, dalla Guerra civile alla Prima Guerra Mondiale, in cui s’intrecciano le storie di due famiglie: gli Hamilton e i Trask. Da una parte il vecchio Samuel Hamilton, immigrato dall’Irlanda; e, dall’altra Cyrus Trask insieme ai figli Adam e Charles, e ai nipoti Aron e Caleb, gemelli nati dalla misteriosa Cathy Ames ‒ reincarnazione di Eva e di Satana allo stesso tempo, emblema del male nel mondo ‒ che abbandonerà il marito e i due figli appena nati, trasferendosi in città dove si creerà una nuova vita lavorando in un bordello. A ciascuna delle famiglie corrisponde una visione della Storia e del ruolo dell’uomo al suo interno: per gli Hamilton è la sostanziale armonia di un nucleo raccolto attorno al patriarca Samuel, uomo saggio che grazie all’ingegnosità, alla testardaggine, al coraggio, all’amore, conquista un proprio ruolo e una dignità temprata dalle fatiche. I Trask, invece, incarnano il perenne conflitto tra generazioni e tra fratelli, condannati a contendersi l’affetto del padre. La vita delle due famiglie scorre parallela, per poi incrociarsi e fondersi nell’incontro tra Samuel e Adam nel quale il patriarca restituisce al giovane la vita che Cathy gli ha sottratto, lo aiuta a battezzare i suoi figli – ancora senza nome – e gli trasmette il sogno di una continuità generazionale che assorba il conflitto e lo trasformi in energia positiva: “Lasciamo sempre qualcosa in eredità, qualsiasi cosa facciamo e anche se non facciamo niente” – fa dire Steinbeck a Samuel. “Anche se abbandoni tutto, cresceranno le erbacce e i rovi. Qualcosa cresce sempre”. Nel mezzo c’è un personaggio chiave, il cuoco cinese Lee, il quale, indagando sulle diverse traduzioni del significato di un passo della Bibbia, scopre che la chiave di volta di quella frase è la parola “timshell” la quale non significa “tu riuscirai a sconfiggere il male”, che suona come una promessa, né il “tu sconfiggerai il male”, più simile a un ordine. Il suo valore più profondo è: “tu puoi”. E su questo si basa il romanzo, cioè sulla nostra facoltà di scegliere tra giusto e sbagliato, tra buono e cattivo.
LO SPETTACOLO
Rinunciando a suggestioni spettacolari e condensando la rappresentazione in sette ore (due parti in sere alterne o in una lunga maratona), Latella vira a favore della parola letteraria in tutto il suo peso e valore, quel verbo che si fa carne e che genera azioni, muove pensieri e sentimenti, edifica e distrugge. Amplificate, spesso, dall’effetto sonoro dell’eco – e da improvvisi rimbombi degli oggetti –, le voci sembrano espandere lo spazio, le parole risuonare fuori dal tempo come se giungessero da un altrove facendo emergere, via via, tutta “quell’oscura violenza che c’è nella valle”. Mantenendo la platea sempre illuminata (tranne che nell’ultima parte) in modo da farci sentire elementi vivi di questa storia, Latella costella la messinscena di pochi simboli che condensano molteplici significati. Un tavolo e delle sedie, delle pietre e in particolare un sasso, le scarpe, sono alcuni di questi, insieme a vassoi con bicchieri di alcool e tazze da the che passano di mano in mano. Attorno al primo – oggetto predominante ed emblematico della famiglia – siedono i personaggi, spesso di spalle a noi, spostandosi da una sedia all’altra, distanziandosi tra di loro, confrontandosi frontalmente, stentando, anche, a staccarsi da essa perché inchiodata; le pietre, sparse al suolo e poi messe tra le gambe di Cathy, alludono alla durezza della terra e alla nascita dei due figli gemelli. Alla lentezza dei movimenti e ai lunghi silenzi dell’inizio della prima parte, seguono i dialoghi verbali, dinamici nell’evocare sequenze, inframezzati da una narratrice – la voce dell’autore.
A spezzare la vastità del palcoscenico, creando uno spazio più intimo che isola le azioni spostate in avanti, è un’enorme parete-sipario calata fin quasi a terra lasciando visibili solo le gambe dei personaggi muoversi dietro di essa. Quella parete, le cui assi cadranno rovinosamente in chiusura della prima parte per la detonazione della pistola con cui Cathy cerca di uccidere il marito per poi fuggire, nella seconda parte si aprirà offrendo un vasto prato verde abitato prevalentemente dall’euforia delle donne. La terza parte è una visione abbagliante. I due fratelli Caleb e Aron lavoreranno fisicamente, in più sequenze, a rivestire con le assi lo scheletro della casa – il cui modello rimanda a quelle dei quadri di Hopper ‒, luogo centrale dello svolgimento finale vibrante di tumulti emotivi, gabbia e spazio della coscienza di Cathy, dove, luminosa nel suo abito giallo, la donna è la potente tenutaria di un bordello. Qui, scontrandosi con lei rintracciata a distanza di vent’anni, converranno prima il marito, e dopo i figli, testimoni involontari del suo suicidio. Che noi intuiremo udendo il trambusto e il colpo di pistola provenire dall’interno della dimora chiusa alla nostra vista. Mentre la platea nuovamente s’illumina, l’unica figura che rimane è Adam di spalle, seduto davanti alla casa. Lo spettacolo non poteva che concludersi con la parola letteraria, quella del libro e delle sue ultime frasi lette dalla narratrice. Uno spettacolo vertiginoso, dal gigantesco sforzo compositivo, che restituisce tutto il respiro epico del romanzo ponendo riflessioni universali, e che inchioda alla poltrona grazie soprattutto a un cast di attori superbi nella resa recitativa ed espressiva, straniante e coinvolta allo stesso tempo. E sono Michele Di Mauro, Christian La Rosa, Emiliano Masala, Elisabetta Valgoj, Candida Nieri, Annibale Pavone, Massimiliano Speziani. Finalmente un capolavoro.
‒ Giuseppe Distefano
Dopo il debutto all’Arena del Sole di Bologna, lo spettacolo è in tournée al Teatro Morlacchi di Perugia, dal 27/11 all’1/12; al Teatro Argentina di Roma dal 5/5/2020 al 15/5/2020.
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