Voguing, clubbing e danza contemporanea
Nell’ambio del nostro approfondimento sulla clubbing culture, uno sguardo all’influenza esercitata da fenomeni come il voguing sulle arti performative.
Da sempre le culture street contaminano le arti così dette “alte”, portando con sé stilemi estetici e questioni socio-culturali. L’arte visiva è stato il primo cantiere di commistione ma il fenomeno è oggi particolarmente riscontrabile nella danza contemporanea: dalla breakdance al parkour alla clubbing culture, i palcoscenici internazionali accolgono spettacoli ibridi o artisti provenienti da ambiti specifici della street-dance. Recentemente il giovane Michele Rizzo (1984), nome di punta della danza contemporanea italiana e olandese, giunge al successo con Higher, un inno all’esperienza estatica del clubbing, che vede nella musica trance la possibilità di una modellatura performativa del corpo-mente danzante. Importante in questa produzione è la collaborazione con il compositore Lorenzo Senni, icona Anni Dieci della musica elettronica per il suo approccio minimalista alla trance. Prima di loro il duo israeliano composto da Sharon Eyal e Gai Behar, visto al Romaeuropa Festival oltre che a Parigi sulle passerelle di Dior, mescolava i codici di una rigorosa danza moderna e contemporanea a sonorità e ritmi clubbing, portando in scena un dj-set di Ori Lichtik ad accompagnare il suo OCD-Love.
TEATRI E FESTIVAL
Più recente è invece l’ingresso della cultura voguing sulle scene di teatri e festival internazionali, il fenomeno accompagna la crescente attenzione verso le questioni legate alla cultura LGBTQ*. Artisti come François Chaignaud, Trajal Harrel o il più radicale Kiddy Smile ma anche artiste come Cecilia Bengolea, che sebbene nei suoi spettacoli faccia maggior riferimento alle pratiche della dance-hall jamaicana, si nutre dell’influenza più ampia della ballroom-culture di cui il voguing fa parte.
Negli spettacoli il voguing perde la sua valenza identitaria e di aggregazione ‒ non si portano in scena le “battle”, né le “House” in lizza per il primato ‒ e l’obiettivo diventa quello di puntare i riflettori su un aspetto della street-culture ancora poco noto al di fuori della comunità di riferimento, nonostante le sue origini ormai lontane e la conclamazione nei confronti del grande pubblico da parte di Madonna, nel 1991, con Vogue.
Il voguing nasce a New York, e in particolare all’interno della comunità afro-americana di Harlem, ispirandosi a qualcosa di esterno, che non appartiene a questo gruppo sociale: la Haute Couture, le sfilate e le riviste patinate francesi, come Vogue appunto. Non a caso le influenze di questa cultura nella danza contemporanea europea sono riscontrabili soprattutto in artisti francesi. Sarebbe riduttivo dire che il voguing riprenda dalla moda e dalle riviste soltanto le pose, le attitudini fisiche di modelle e modelli, una delle categorie delle battaglie di voguing è infatti il “best-dressed”, che sancisce un premio al miglior vestito. Ciò che si riscontra in molti degli artisti che si ispirano a questa subcultura è uno spiccato interesse per l’abito, come travestimento ma anche come oggetto d’arte, aldilà di un semplice costume di scena.
KIDDY SMILE
Il “principe francese del voguing”, Kiddy Smile, musicista e coreografo, è anche stilista e i costumi hanno un ruolo fondamentale nelle sue performance. Lo abbiamo visto da poco a Short Theatre a Roma in collaborazione con La Francia in Scena e al festival di Cannes, in veste di performer ma anche come l’autore delle musiche di Climax di Gaspare Noé. “Io mi definisco un artista house-music. L’aggettivo queer è limitante. La mia arte riflette la mia vita di ogni giorno. Io parlo di me stesso, dell’essere nero e gay. Le mie sono canzoni d’amore. Non sono politiche ma il mio lavoro lo è”.
TRAJAL HARREL
È un’affermazione di Smile che crediamo sarebbe condivisa da Trajal Harrel, altro rappresentante di questa commistione di culture, sebbene il suo approccio sia più concettuale. Afro-americano, nato a Douglas (Georgia), noto al pubblico della danza grazie al festival d’Automne parigino, al festival DO DISTURB del Palais de Tokyo e più recentemente al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, è stato designato nel 2018 “danzatore dell’anno” dalla rinomata rivista Tanz Magazine per la serie di spettacoli attraverso cui crea una fusione tra la danza moderna della classe media artistica bianca con lo stile voguing. Questo titolo è all’origine del suo ultimo spettacolo, un solo, Dancer of the year, in cui il coreografo riflette sul valore dell’onorificenza ricevuta per il mondo della danza, su ciò che questo significa in termini auto-riflessivi ma soprattutto sul valore della danza per se stesso.
Nell’installazione performativa Dancer of the Year Shop Harrell ricrea un negozio in cui vendere oggetti personali di valore inestimabile, come ad esempio dei beni ereditati, con riferimento al coreografo giapponese Tatsumi Hijikata che chiedeva ai suoi ballerini di lavorare nelle discoteche per finanziare gli spettacoli. Anche nel lavoro di Harrel il costume ha un ruolo importante, sebbene con connotati più minimalisti, colori più scuri.
Emergono dal suo lavoro grandi temi, che vanno aldilà della cultura di riferimento e che riguardano, in senso ampio, origini e patrimonio socio-culturali, stima e coscienza di sé ma anche il valore dell’arte. Per (M)IMOSA, spettacolo facente parte della serie Paris is Burning at The Judson Church, nel 2011 Harrel collabora con i coreografi François Chaignaud, Cecilia Bengolea e Marlene Monteiro Freitas, per chiedersi: cosa sarebbe successo nel 1963 se una figura della scena voguing fosse scesa fino a Downtown per danzare a fianco dei pionieri della Post-Modern Dance?
‒ Chiara Pirri
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati