Le conseguenze della pandemia sul settore della danza e come riprendersi
Manuela Barbato, curatrice della stagione danza al Teatro Bellini di Napoli insieme alla coreografa Emma Cianchi, mette in luce la drammatica situazione in cui versa il settore della danza a causa della pandemia che ha messo in crisi compagnie piccole e grandi.
La sensazione che si fa strada in queste settimane ‒ dopo circa 40 giorni di confino ‒ è a metà tra il cinismo e il lutto. C’è un lungo corteo funebre che in silenzio diventa sempre più numeroso: parte dallo spirito, passa per la nostalgia dell’atto creativo e sfila mugolando tra petizioni, sindacati, levate di scudi e spasmodica affermazione della propria dignità. Si tratta degli artisti e nello specifico di quelli appartenenti al mondo della danza.
Se annullare un singolo spettacolo crea danni molto ingenti, cancellare parte di una stagione e programmarne un’altra senza certezze è per gli organizzatori, i curatori, i direttori artistici spaesamento puro: si apre il pavimento sotto i piedi come nei film fantasy e il volo in un immenso e buio baratro sembra non finire mai, eppure bisogna provare a planare e continuare a crederci, a lavorare, a contattare artisti, compagnie e, dopo aver chiuso sipari e coperto poltrone, riprendere comunque a immaginare una nuova stagione. Sono Manuela Barbato, curatrice della stagione danza al Teatro Bellini di Napoli insieme alla coreografa Emma Cianchi oltre che redattrice di questa testata. Scrivo delle conseguenze emotive – legate tanto al danno economico quanto alla poca considerazione in termini di risposte istituzionali concrete – ricadute sull’intero comparto danza che, già nella normalità, soffre, arranca e fa miracoli.
UNA SITUAZIONE DESTABILIZZANTE PER TUTTI: ARTISTI E PROGRAMMATORI
Abbiamo fermato tutto quando ci è stato chiesto di farlo, contattando i singoli danzatori indipendenti e le compagnie di danza più strutturate: una tragedia per i primi, un enorme danno per i secondi, laddove ogni singola data, ogni singola performance fa sì che una figura professionale come quella del danzatore riesca a reggersi in piedi. Perdere una data, perderne due, perderne tre lascia il danzatore seduto ad aspettare su una sedia con tre gambe: l’equilibrio è a rischio, le forze per continuare a reggersi vanno esaurendosi, la postura che si assume – scomposta e spasmodica – intacca l’immagine che si voleva dare di sé e l’artista, la stella del palcoscenico, si sente sempre più piccolo e comincia a provare la sensazione di chiedere l’elemosina. Va da sé che questo discorso non vale allo stesso modo per le grandi realtà strutturate come le compagnie di danza di spessore internazionale che incassano il colpo, stringono la cinghia e riescono a gestire il fermo imposto. Ma quando si tratta di artisti indipendenti o di piccoli collettivi che campano con le singole produzioni il discorso cambia radicalmente. Le date saltate andrebbero recuperate in un’ottica di reciproco supporto fra il teatro e gli artisti, ma il problema è che le date della nuova stagione sono state da noi già stabilite e calendarizzate molto prima della chiusura di marzo. Dunque che fare?
IPOTESI PER IL FUTURO
Recuperare le date per sostenere in qualche modo le compagnie “saltate” vorrebbe dire far scivolare il cartellone di un anno penalizzando gli artisti già confermati per la stagione 2020/2021. Perché, se il virus ha causato la chiusura dei teatri nel mese di marzo è pur vero che nello spettacolo dal vivo è un po’ come nella moda: si lavora con un anno di anticipo e questo da un lato giova dall’altro fa perdere aderenza con il presente. Ma l’aderenza con il presente c’è un’intera classe politica che l’ha persa da un pezzo, o forse in Italia non l’ha mai avuta, non riconoscendo ‒ in termini fattivi e non in sviolinate fintamente empatiche su quanto la cultura conti – i tratti distintivi e peculiari dell’arte coreutica a cui viene destinato un ridicolissimo 3,52% del FUS (fondo unico dello spettacolo) contro il 18,04% del comparto musica e il 21,15% del teatro. Il problema è culturale e ha radici lontanissime, che affondano nel terreno del pressapochismo laddove la danza è considerata dai più un contorno ad altre arti che risultano essere privilegiate, cosa che non accade negli altri Paesi europei, per non parlare della forza della danza oltreoceano. Pensate al palinsesto televisivo o ai cartelloni dei teatri italiani, dov’è la danza, chi crede nella danza, chi investe nella danza? Non so su quante mani si contino i teatri che in Italia hanno una stagione intera dedicata a quest’arte. Al Teatro Bellini lo facciamo già da anni e agli occhi dei più appare quasi come un atto di coraggio. È un mondo delicato e instabile, senza certezze e con le spalle molto poco protette e in un attimo tutto si sbriciola.
L’INSTABILITÀ DELLA DANZA
La danza dei collettivi, dei freelance, dei coreografi indipendenti, dei performer non ha paracadute né sostegni dalle istituzioni e dai flebili e occasionali rapporti di lavoro.
Occasioni perdute, sogni infranti, un intero settore allo sfascio, perché il danzatore è un po’ come il giocatore di pallanuoto: non resta a galla solo grazie alla forza di galleggiamento, ma grazie alla forza che egli stesso impiega in maniera costante nelle gambe e nelle braccia senza sosta, senza pause, senza riposo. Il danzatore/pallanuotista può farcela, può sopravvivere senza annegare grazie alla propria inesauribile forza di volontà, ma se poi arriva un imprevisto – che sia un infortunio, uno spettacolo saltato, un evento di forza maggiore – che comincia a spingere sulla testa allora non c’è forza o volontà che regga. Il danzatore va giù, annaspa e deve continuamente prendere in considerazione l’idea di abbandonare il suo mestiere. Un mestiere che, nonostante richieda una preparazione fisica indescrivibile, una cultura direttamente proporzionale allo spessore della propria produzione artistica, una ricerca costante nel campo della fisica tra esperimenti e leggi da sfidare. Uno studio della musica nelle sue innumerevoli declinazioni è ancora considerato dai più come una forma d’intrattenimento e l’artista ‒ dacché aveva un lavoro che amava ‒ si ritrova a essere un giullare senza corte con il rischio di finire nelle cucine.
‒ Manuela Barbato
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