Ma la danza non è un party!
Resoconto risolutamente sommario e parziale della febbrile attività in quarantena della danza in remoto, anche in concomitanza della Giornata Internazionale del 29 aprile, tra pensate videocreazioni coreografiche e più estemporanee e improvvisate incursioni di screendance, di certo non meno efficaci o perentorie perché homemade.
Superata finalmente la vetusta contrapposizione tra classico e contemporaneo, da cui sembravamo proprio non poterci muovere più, ciò che si impone in questi giorni di spettatorialità in remoto della danza è la qualità delle intelligenze dei corpi non più prossimi, il potenziale immaginativo in assenza di comunità, non meno che dell’etica dei progetti proposti. L’occasione è ghiotta anche per comprendere che le regole possono essere cambiate e che il pubblico, per il quale tutto si fa e si sopporta (almeno per coloro che fin qui vi hanno creduto, o hanno potuto far finta di doverci credere) non c’è più. La cattiva coscienza e la bonaria faciloneria non hanno più alibi: l’incompetenza dovrebbe farsi da parte.
Eppure, il settore dello spettacolo in Italia, nelle parole improvvide e cursorie dei governanti di turno, è solo un assistito e da assistere. Oggi non ci sono politiche capaci di comprendere il potenziale generativo e produttivo, in termini culturali e materiali, di questo settore. Semplicemente, non se ne ha un’idea: la danza non sanno proprio che cosa sia. Un party, chissà.
L’assenza di visione politica rispecchia perfettamente l’inconsistenza delle proposte più mainstream, quelle da prima serata, almeno per la danza: dall’inutile mashup di Danza con me al retrivo rispolvero del “ballo grande” Excelsior. Feroce e gratuita ironia, questa, programmare l’elogio positivista e nazionalista in forma danzata dell’idea di progresso (1881) quando se ne soffre, sotto gli occhi di tutti, le sue peggiori conseguenze. Questa volta, sarebbe casomai da tifare per le Tenebre contro la Luce… Tanta imperizia confonde la cultura con lo spettacolo e rischia di avere inevitabilmente un suo prezzo. Che pagheremo tutti, ça va sans dire. Ma mai come questa volta i mercenari sarebbe bene che proprio non ce la facessero.
ESTEMPORANEO E PREPARATO
Tra tutto il nuovo materiale di danza visionabile online in questi giorni, sembrano emergere due ordini distinti di creatività, e dunque di verità che ognuno è disposto a riconoscervi. Il primo è l’estemporaneo, efficace perché immediato e senza pretesa, libero perché occasionale ma che può comprendere il minimo nel pochissimo dei mezzi e del tempo a disposizione, realizzato magari tra una fila al mercato e le pulizie degli ambienti, mettendo in campo spesso con poco anche grandi idee. Il secondo è invece il preparato e patinato, quindi subito vecchio perché qui la ricezione finge di essere elitaria e redentiva mentre l’emergenza è soltanto uno sfondo, i corpi si esibiscono come sempre perché come sempre la danza ha qui soprattutto la pretesa della merce ed è incapace di riflettere lo spessore di ogni urgenza o necessità. Due ordini che rispecchiano anche due ideologie profondamente differenti: la prima crede che la danza sia un mezzo (per l’esperienza, la comprensione, la trasformazione), la seconda un fine (il piacere, il consumo). In attesa di assistere a programmazioni online di festival che promettono inedite modalità di fruizione, e sembra con adattamenti anche improbabili e inevitabilmente attraverso traballanti connessioni, è possibile chiedersi: che cosa abbiamo già visto fin qui, compresa la Giornata Internazionale della Danza del 29 aprile?
SCENDERE IN STRADA
Corpi e mani e braccia e giunture che danzano con cuscini, bicchieri, scarpe, mensole e tazze, spesso con bimbi tra i piedi, o congiunti nascosti o diversamente convocati proprio mentre magari fanno altro, fra spigoli minacciosi e divani ingombranti, con tavolini e sedie invece sempre disponibilissimi (la danza contemporanea sembra proprio non poterne fare a meno), magari fra pareti ottuse e finestre decorative e poi ancora androni e sottoscala, tetti e cortili, rimesse e ascensori e gradinate, porte portoni e cantine, in questi filmati messi online tutto scoppia e verrebbe proprio voglia di scendere in strada (non certo di tornare a teatro) e occupare suolo pubblico, convocare presenze e prossimità illegali. È una chiamata di resistenza civile, allora, quella di questo improvvisato carnevale, perché tutto sembra anche dirci che siamo stufi di questo continuo imperativo alla cura (non vi si sottrae proprio nessuno), al controllo delle emozioni, all’ordine del corpo recluso, dell’affettività compressa o sospesa e francamente stufi anche del marketing dell’emergenza, del facile mi-adeguo-subito, della danza-si-fa-comunque, respingente tanto quanto — al contrario, ma non per questo meno ottuso — no-io-non-festeggio. Stufi anche della riflessione sindacale, della testimonianza accorata e monitrice, della temperatura delle idee da compulsare a ogni aurora. Stufi delle cabale sul beyond, stufi della memoria retrospettiva da rifilare però a scadenza, o del manifesto civile del qui-&-ora: tutte fluviali esperienze di visione ascolto o lettura che esigerebbero di fare, prima, almeno testamento. Stufi, insomma, stufi di tutto ciò che il tempo, invece di fermarlo, sospenderlo o perderlo per consentire una qualche forma di resistenza individuale prima ancora che collettiva, soltanto lo intrattiene.
CORPI E PIASTRELLE
È stata accompagnata da un’intensa promozione il debutto in remoto di 1 meter Closer, videocreazione in quarantena di (e per) Aterballetto e Diego Tortelli, andata in onda su Rai5 il 29 aprile in prima serata. Il concept (quanta danza è possibile nel metro del covid-distanziamento?) fatica a reggere la durata (20 minuti); le inquadrature lunghe, l’ossessione di tenere fermo e chiuso il quadro, il montaggio lento e acritico, tutto è reso claustrofobico e oppresso come già il tempo di ognidì. Un catalogo variegato di piastrelle e parquet accolgono i corpi dei danzatori e delle danzatrici sempre schiacciati a terra, sempre compressi e sempre nervosi. Tanto spasimo però fatica a organizzarsi oltre l’illustrazione. Magnifico il dolente duo di Estelle Bovay e Saul Daniel Ardillo, mestissimo, ma senza dramma perché aperto su un fulgido cortile a ciottolato. Mentre in un altro duo, a suggello di un faticoso abbraccio, tra Serena Visco e RobertoTedesco, improvviso appare un cielo che accoglierà finalmente anche il movimento di qualche primo piano. Ma il resto è senza disegno e allora soli restano loro: i danzatori e le danzatrici, sempre incredibili. Forse è l’ultima immagine a mantenere quel che il trailer prometteva: il corpo di Philippe Kratz abbandonato nel vano di uno stipite a negoziare il tempo del suo dissolvimento.
A specchio colpisce, nel video invece offerto da Oriente Occidente Dance Festival ancora il 29 aprile, tanta sobrietà e dissolvenza delle identità, a favore di disegni tracciati da gesti e di linee che si disseminano dai corpi sul bianco dello sfondo. Senza alcun dramma, questi frammenti in movimento raccontano già la forza del toccare e degli sguardi incarnati che dopo ci attendono.
Ma tutti dovrebbero vedere su Instagram come danzatrici e danzatori dell’Alvin Ailey American Dance Theatre hanno rifatto, nella semplice simultaneità della loro quarantena, l’avvio di Revelations (1 minuto e 27 secondi), coreografia fondativa del 1960, senza strategie di marketing né ricatti volgari al proprio passato, e il cui appello a una danza capace di comunità appare quanto mai presente, ancora inevaso.
– Stefano Tomassini
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