Performing Resistance. La Summer School di Atlas of Transitions Biennale
La pandemia ha pesantemente modificato la fruizione di eventi e rassegne. Fra questi c’è anche Atlas of Transitions Biennale, che sbarca online con la Summer School Performing Resistance.
Performing Resistance. Dialogues on Arts, Migrations, Inclusive Cities è la Summer School ideata come parte di Atlas of Transitions Biennale 2020. Per contrastare la pandemia, diventa digitale e si apre a tutto l’emisfero con dialoghi, incontri, seminari gratuiti di studiosi, curatori e artisti internazionali. Organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione, Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna e Cantieri Meticci, il festival programmato in giugno è stato sospeso, ma intanto prende corpo una sua parte rimodulata in streaming su Facebook e YouTube dal 16 al 20 giugno.
Ne abbiamo parlato con Piersandra Di Matteo, curatrice artistica della Biennale, per confrontarci su come sia cambiata, con l’emergenza Covid-19, la percezione del tessuto sociale, la concezione e la riappropriazione dello spazio urbano al cuore del progetto.
Dopo i festival Right to the City (2018) e Home (2019), Atlas of Transitions Biennale avrebbe dovuto concludere il biennio 2018/2020 con una edizione in giugno. Quali sono gli effetti dell’emergenza COVID-19 sulla terza edizione?
È un fatto che i nostri corpi siano stati disinnescati dal confinamento coatto del lockdown, intorpiditi dalla colpevolizzazione individualizzata, ora dall’assillo del distanziamento sociale. Nelle precedenti edizioni della biennale che hai ricordato, abbiamo coltivato l’agire collettivo attraverso progetti partecipativi capaci di declinare forme di prossimità corporea e reciprocità, tattiche di riappropriazione della città (in particolare delle periferie). La forza tifonica della pandemia ha colpito al cuore proprio questo spazio d’azione. Impossibile riprogrammare semplicemente il festival di giugno in un altro momento. È necessaria una sintonizzazione con il nostro attuale sentire, con le istanze sociali che si stanno manifestando. Non si può far finta che la macchina della disuguaglianza radicale non sia in atto nella gestione dell’emergenza, lì si scavano fossati in cui prolifera la precarizzazione delle forme di vita. Sicuramente ci saranno altre azioni autunnali consonanti con queste riflessioni.
Performing Resistance avrebbe dovuto svolgersi “dal vivo”. Come è stata rimodulata?
La Summer School era pensata come un’attività diurna del festival, un momento di studio trasversale su arti performative, migrazione, forme della cittadinanza, per una classe di 30 persone. In dicembre abbiamo lanciato una call: hanno risposto più di 130 interessati dal Brasile all’Afghanistan. Le misure anti-COVID-19 evidentemente ci hanno impedito di svolgerla in presenza. Con uno sforzo di progettazione abbiamo ripensato gli incontri facendo leva su un’idea di partecipazione larga: nasce così la piattaforma digitale Performing Resistance. Si tratta di spazi discorsivi in cui studiosi, attivisti, curatori e artisti internazionali si interrogano su diversi temi affrontati in questi anni dai festival della Biennale: politiche migratorie, estetizzazione dei confini, pratiche artistiche che costruiscono spazi di resistenza, pronunce contro-egemoniche capaci di decostruire posizioni neocoloniali ed esotizzanti che feticizzano il migrante in una “figura” incapace di soggettivazione. Gli incontri approfondiranno molte altre questioni come le potenzialità delle arti performative di controbattere pronunce non inclusive con atti incarnati; o il confine tra arte e attivismo già indagato con Tania Bruguera con i progetti School of Integration e Referendum.
Perfomance Resistance è un’occasione per alimentare le altre forme della conoscenza. Potresti fare qualche esempio?
Daniel Blanga Gubbay si sofferma sui progetti pedagogici “attivati” da artisti e concepiti per dare parola a soggetti marginalizzati e fare spazio a saperi invisibilizzati. Sono modi per ripensare gerarchie tra i saperi, dinamiche di potere, quindi decolonizzare la cultura e descolarizzare la società. Sempre in relazione alla costruzione di sapere, l’attivista finlandese-nigeriana Minna Salami declina l’urgenza di un “sapere sensibile”, un approccio alla conoscenza in grado di sintetizzare gli apporti combinati del femminismo nero, filosofia occidentale, mitologia africana e narrativa del sé, contro istanze “euro-patriarcali”.
Performing Resistance supporta Mediterranea #Saving Humans, piattaforma della società civile presente nel Mediterraneo centrale con una nave battente bandiera italiana, che svolge attività di monitoraggio e di salvataggio. In che modo?
Per Atlas of Transitions Biennale il dialogo con Mediterranea #Saving Humans è da sempre cruciale, perché fondamentale è il lavoro che questa realtà della società civile sta facendo con gli “equipaggi di terra” e o per mare, pattugliando e salvando vite umane. Da qualche giorno la Mare Ionio è partita per la sua ottava missione. Performing Resistance sostiene la missione: ospita il dialogo tra Michael Hardt e Sandro Mezzadra, entrambi attivisti di Mediterranea, che, partendo dal racconto di questa esperienza, affronteranno temi che riguardano l’attuale politica migratoria, il diritto di fuga, le violazioni dei diritti umani che hanno reso il Mediterraneo un cimitero. In ogni webinar verrà ricordato il progetto e segnalato l’iban. Donate!
La pandemia ci aiuterà a riappropriarci della città? A capire quanto il tessuto relazionale tra i corpi sia fondamentale?
Credo che sia ora il momento di gettare le basi per operazioni pratiche e i processi artistici che promuovano forme di riappropriazione degli spazi e dei tempi ora presidiati. Credo sia la vita urbana quella in cui agire “di concerto”, non tanto per operare in conformità, quanto per negoziare scopi convergenti e divergenti che abbiano di mira il bene comune. Le arti performative possono essere il terreno privilegiato per espandere la potenza del corpo a corpo, l’avamposto da cui promuovere una riattivazione collettiva alla collettività. La sfida prima è contro la contrazione dello spazio pubblico, per poter esercitare il proprio “diritto alla città” attraverso un rinnovato patto tra ambiente e abitanti, magari rinsaldando un dialogo intimo con la natura: centrale è la vita nei parchi. Rivendicare che queste intese non siano forzatamente produttive o vincolate a parametri numerici, ma alleanze, parentele non normative, posture intensificate dalle differenze contro ogni subalternità (razziale, di genere, sociale). Nikos Papastergiadis dell’Università di Melbourne rifletterà proprio sugli scenari futuri per l’arte pubblica nel contesto urbano post-pandemico.
‒ Alessandra Corsini
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