Festival di Santarcangelo, la cura del futuro
Santarcangelo 2050 si è concluso il 19 luglio, in un crescendo di suoni, incontri, relazioni. Un festival gentile, che ha posto al centro il tema della cura, della distanza, dell’essere in presenza, della vulnerabilità nel vivere su questo pianeta fragile, danneggiato, infetto già prima della pandemia. Lo ha fatto spostandoci in avanti, proiettandoci a piccoli passi cauti verso il Futuro Fantastico indicato nel titolo dell’edizione che avrebbe dovuto festeggiare i cinquant'anni di questo appuntamento rivoluzionario, e che oggi dilata le celebrazioni in un tempo lungo, esteso nel corso dell’anno, sino alla prossima estate.
Il desiderio di incontrarsi, di tornare a esserci, di affondare lo sguardo nell’abisso degli occhi dell’altro, di riconoscersi come corpi, materici, fisici, umidi, umorali, ha raggruppato a Santarcangelo 2050 una comunità di astanti che si è sfidata a esserci, anche in assenza di spettacolarizzazione, creando una caleidoscopica e intima adunanza.
La dimensione raccolta del festival, curata nell’esecuzione meticolosa delle normative anti-covid, sensibile all’impossibilità di poter dimenticare l’allarme e la violenza dell’evento pandemico sulle nostre vite, ha permesso di ritrovarsi e di sperimentare la possibilità concreta dell’incontro, rispondendo con misura e adeguatezza alla tendenza all’inazione che ha portato molte manifestazioni alla dolorosa scelta di annullare la propria programmazione.
Santarcangelo si è preso il rischio di orientarci verso nuove pratiche di prossimità e di attivare un dialogo collettivo e orizzontale su alcune questioni emerse negli ultimi mesi:
Come proteggerci? Come riorganizzare la distanza, come essere ancora in co-presenza? Come unire le nostre fragilità e riappropriarci della sfera pubblica, di quel motore di senso, di quello spazio politico, simbolico, rituale che la comunità del contemporaneo attiva? Come rivendicare il diritto allo sguardo, allo spazio rituale della performance?
I TALK A SANTARCANGELO
Il palinsesto di talk organizzati ha sollevato un confronto su questi temi.
Nell’appuntamento del Campo Innocente sono emersi interrogativi e riflessioni sul precariato sistemico nel mondo delle arti performative e visive, sull’assenza di forme di protezione, sulla necessità della cura e del reddito universale. Come stiamo? è stata la domanda rivolta dal collettivo transfemminista, in forma di autoinchiesta in un confronto con altre realtà, alcune delle quali nate durante il lockdown per rispondere alle carenze diffuse e stratificate in questi ambiti (AWI, Al Di Qua – Alternative Disability Quality Artists, Griot Italia).
I no (e i noi) emersi nei giorni precedenti al festival dalle pagine del Campo Innocente sono stati condivisi, problematizzati, discussi e aperti al confronto con il reale; ci hanno interrogato, si sono trasformati in domande, e hanno invitato a chiederci come ri-organizzarci, come creare spazi tentacolari di relazione e di cura.
Altro importante momento di riflessione si è aperto durante Together Apart, incontro concepito da Chiara Organtini e condotto da Silvia Bottiroli, in dialogo con Daniel Blanga Gubbay, Tanya Beyeler, Julian Hetzel, a partire dalla performance di El Conde de Torrefiel, Se respira en el jardín como en un bosque / Si respira in giardino come nel bosco. La compagnia spagnola, che avrebbe dovuto essere a Santarcangelo con un altro spettacolo, ha scelto di lavorare in assenza, di ragionare sulla condizione della distanza, amplificandola, di delegare la messa in scena a una rete di alleanze e convocare lo spettatore in solitudine, attraverso un set di istruzioni trasmesse in cuffia.
Negli spazi del Lavatoio, recentemente restaurati, le categorie di spettatore e performer si sono incontrate in una zona di frontiera, uno spazio di indistinzione. La scena vuota diviene prima di tutto spazio di ascolto, attraverso le istruzioni che il partecipante solitario riceve e che si troverà a eseguire. Ma è anche terreno di copresenza. A guardare l’interprete, infatti è convocato un unico spettatore, già prima di lui performer, che osserva l’esecuzione del nuovo partecipante, sino al momento in cui questo andrà a sostituirlo, aspettando a sua volta chi succederà.
Pochi e chiari task invitano a eseguire una gamma di azioni primarie, provocando attraverso la persistenza dell’immagine nel tempo, un campo di accadimenti.
La distanza è qui intesa come spazio, e non come sua riduzione, come nota Daniel Blanga Gubbay, e diventa linguaggio per sé: una distanza in copresenza, che disloca, deterritorializza e apre a nuove soglie, strumenti e potenzialità di creazione.
LA PERFORMANCE DI ZAPRUDER
Il talk Transfert per Kamera dedicato agli sconfinamenti tra cinema, performance e arti visive, e alla collaborazione tra Santarcangelo e Filmmaker Festival, ha indagato la relazione tra liveness e opera filmica, e la traducibilità dei linguaggi, concentrandosi sul canto d’amore che Zapruder ha consegnato attraverso il rombo dei motori di Anubi III la sera del 18 giugno.
Concepita come un concerto, Anubi III una partitura di suoni che si articola tra le variazioni di massimi e minimi di giri di motore, un poema sinfonico di rombi di moto motard che “cantano” senza mai sfogare nell’acrobazia, nell’abilismo, domando piuttosto l’energia dinamica di cui i motociclisti sono messaggeri.
Secondo episodio di una trilogia nata con Anubi is not a Dog presentato quest’anno ad Artefiera a Bologna, il lavoro continua l’esplorazione sul dio dal volto di cane, protettore del mondo dei morti e dei riti di mummificazione. Approfondisce il tema della traducibilità della lingua, della soglia tra i mondi dell’udibile e del visibile, invitando a sovvertire le categorie della percezione, a usare i sensi in termini bataillani: a guardare con le orecchie e ad ascoltare con le dita.
A essere amplificato in Anubi III, oltre al suono dei motori, è il set, creatura solitamente ermetica, luogo segreto “che ha a che fare con il mito, impossibile da raggiungere e da raccontare”, che qui si apre, diventa il luogo della performance, di un presente immobile, un rito selvaggio e controllato, che poi in seguito si trasformerà in un film. In un insolito drive in, lo spettatore giunto obbligatoriamente in macchina o in moto viene sottratto alla protezione e proiettato nel rischio controllato della scena. Il suo occhio selvaggio, catturato e immortalato dalla camera per il montaggio finale, diviene testimone di quel contesto di eccezione, che sempre è e dovrebbe essere condizione della liveness.
DISPENDIO E TEMPO INCRINATO AL FESTIVAL DI SANTARCANGELO
Nell’incontro finale del festival, David Zamagni, presente insieme a Nadia Ranocchi con cui condivide il progetto Zapruder, ricostruisce il lavoro, riportando la potenza dello sguardo di una persona nella fase terminale della sua vita che giunge ad assistere la performance, e lo fa come suo ultimo atto.
Uno sguardo che ci interroga oggi sul dispendio, sull’urgenza di questo tempo altro rispetto allo scandirsi ordinario della vita, un tempo fermo che si strappa al presente. Uno sguardo potente, un occhio che si rivolge a noi, ancora vivo, come un imperativo, una necessità di presenza, di condivisione e trasformazione.
Ogni giorno è la fine del mondo, per qualcuno. Citando Margaret Atwood, Daniela Nicolò dei Motus, alla direzione artistica del festival insieme a Enrico Casagrande, traccia un’importante riflessione sul senso di un festival che attraversa, tra i primi, un tempo incrinato. Un festival che oggi forse si traduce nella possibilità di guardare alla performance come spazio di cura, intesa non tanto come sistema prescrittivo, anestetizzato, ma come atto potente, collettivo, di conquista verso il desiderio, di sovversione di paradigmi e creazione di nuovi immaginari, contesto di rischio e di gioia radicale.
– Maria Paola Zedda
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