Ripensare il teatro in epoca di lockdown
A differenza di altri settori, il teatro non sta “facendo tesoro” dei limiti imposti dalla pandemia e non sta mettendo in campo strategie innovative. Ma è la strada giusta?
Durante il lockdown, molti musei hanno introdotto innovazioni di “prodotto”. Allo stesso modo, molte biblioteche hanno mostrato grandi passi avanti. Anche il settore degli eventi è stato investito da proposte innovative. Il teatro ha assunto invece una posizione più attendista. Ora che lo spettro di un nuovo lockdown si avvicina, tutti gli altri settori potranno contare su processi già avviati. Sarebbe dunque il caso di iniziare a valutare strategie anche per il teatro e comprendere come poter far sopravvivere questo settore (altrimenti destinato a ricevere solo finanziamenti pubblici che non potranno mai colmare le perdite subite).
Si badi bene, il riferimento alle innovazioni di prodotto non definisce una banale, seppur importante, traduzione digitale dei servizi e dei prodotti già offerti dalle organizzazioni culturali. Quella è un’estensione dei canali di distribuzione. Innovazione di prodotto implica, quindi, la volontà e la capacità di estendere le proprie attività per meglio soddisfare, almeno questo è l’intento, i bisogni dei consumatori attuali e/o potenziali.
Per intenderci: mettere online uno spettacolo non è, di per sé, un’innovazione di prodotto. Può esserlo, certo. Ma è necessario che questa operazione di digitalizzazione venga affiancata da altri servizi “aggiuntivi”.
“Pensare alla ‘massa’ incolta permette di distogliere l’attenzione dalle proprie azioni. E quindi il teatro è rimasto identico a se stesso, mentre il mondo cambiava”.
Il teatro, al riguardo, ha sempre assunto una prospettiva scettica. Nessun biasimo. Se scomponiamo il “teatro” in una sorta di schema produttivo, è facile comprendere che sia rimasto invariato nei secoli. Squadra che vince non si cambia.
Il problema è che, però, quando la squadra ha iniziato a perdere, il settore teatrale, e ancor più colpevolmente il settore teatrale privato, ha aderito alla facile narrazione che vede cultura da un lato e volgo dall’altro. Per quanto chiunque riconosca che tale formula non risponde alla realtà, essa continua a essere estremamente sexy nel mondo di chi fa cultura. E ci riesce per un trucco che, in un Paese come il nostro, è più che efficace: de-responsabilizza.
Pensare alla “massa” incolta permette di distogliere l’attenzione dalle proprie azioni.
E quindi il teatro è rimasto identico a se stesso, mentre il mondo cambiava e, con esso, cambiavano le esigenze dei consumatori di teatro.
A nulla sono serviti gli stadi pieni del Cirque du Soleil o le piazze gremite della Fura dels Baus. A poco è servito anche quel Dignità Autonome di Prostituzione che, trasformando il teatro in un “mercato” di micro-teatri, ha attirato nei teatri una platea con un’età media un terzo più bassa rispetto a quella degli abbonati.
“È chiaro che l’uomo abbia bisogno di teatro. Bisogna capire se l’uomo ha bisogno dello stesso teatro di mille anni fa”.
Allora a cosa serve il lockdown? Serve a sfruttare il momento di “necessario” ripensamento del prodotto, in modo che il “teatro” ritorni a essere un culto laico dell’uomo, un momento di riflessione sull’umanità che poche altre arti permettono di mantenere.
Perché è chiaro che l’uomo abbia bisogno di teatro. Bisogna capire se l’uomo ha bisogno dello stesso teatro di mille anni fa. L’importanza del digitale sbianca di fronte a tali interrogativi, che subito fanno comprendere che la semplice trasmissione online di uno spettacolo sarà tutto fuorché dirimente. Viviamo in un mondo completamente diverso da quello in cui il teatro era un consumo culturale abituale. Non per questo abbiamo perso il bisogno di storie.
Abbiamo solo bisogno di storie che riescano a rappresentare la nostra vita. Non solo nei contenuti, ma anche, e soprattutto, nei linguaggi.
O davvero sperano, i proprietari dei teatri privati, che finita l’ansia da Covid le proprie sale torneranno a essere piene come qualche anno fa?
‒ Stefano Monti
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