L’amore segreto di Ofelia nell’estate teatrale veronese

Andato in scena al Teatro Romano di Verona, “L’amore segreto di Ofelia” diretto da Luigi De Angelis mescola l’esperienza dell’isolamento alla tradizione del Bardo.

La giusta distanza. La distanza tra attore e personaggio, tra personaggio e personaggio, tra attore e pubblico, tra personaggio e testo, tra parole e immagine. Apparentemente semplice, L’amore segreto di Ofelia è invece una ragnatela costruita su punti equidistanti. Un giochino innocuo generato dal lockdown, ha detto qualche spettatore indispettito uscendo dalla cavea del Teatro Romano. Un gioco ‒ diciamo noi ‒ di segmenti uguali aperti da un compasso che per tutti ha la stessa distanza. Chiara Lagani ‒ sua la drammaturgia sul testo di Steven Berkoff ‒ e Luigi De Angelis – che firma la regia ‒ hanno espanso quelle discrasie che abbiamo amato nel loro progetto su Primo Levi. Lavori come quello su David Bowie o lo scrittore dell’Olocausto hanno divaricato la smagliatura tra finzione e realtà con millimetrica precisione. Un bisturi ha inciso le carni dello spettacolo sezionandone le sue parti e rendendole inconciliabili tra loro.
Smagliature, ritardi tra output e input che sul grande (enorme) palco del Teatro Romano diventano solchi e fossati non tanto per i languori di Ofelia, quanto piuttosto per far annegare la nostra partecipazione emotiva, la nostra empatia, con buona pace di Brecht e delle sue teorie sullo straniamento, il tanto declamato Verfremdungseffekt.

Chiara Lagani & Luigi De Angelis, L'amore segreto di Ofelia. Teatro Romano, Verona 2020. Photo Francesca Marra

Chiara Lagani & Luigi De Angelis, L’amore segreto di Ofelia. Teatro Romano, Verona 2020. Photo Francesca Marra

SUL PALCOSCENICO CON OFELIA

Francini e Argenteri appaiono prima su due grandi schermi simulando una prova a tavolino e poi in carne e ossa leggono le epistole scritte da Berkoff imitando (postproduzione) la scrittura del Bardo. I battibecchi, i capricci degli attori lasciano il posto alla poesia del testo, picchi erotici decantano nelle impeccabili immagini della natura che nel frattempo appaiono sui video alle loro spalle come un documentario di National Geographic.
Il pubblico sulle gradinate del Teatro Romano è distanziato e straniato nell’impossibilità di contestualizzare, di condividere il flusso emotivo generato dalla corrispondenza epistolare tra Amleto (Andrea Argentieri) e l’Ofelia tutt’altro che languida e svenevole di Chiara Francini. Lagani e De Angelis si sono divertiti non poco ad allargare e stringere come un elastico l’immaginario, la memoria in cui il pubblico ha collocato le figure dei due personaggi con le parti indossate in scena. Il vissuto dei due attori, compreso quel recitato un po’ sporco di Argentieri, sono un goloso bagaglio con cui creare scompensi, dissonanze cognitive, tradimenti delle aspettative.
Il testo poi nasce nella struttura epistolare ma oscilla come un pendolo nella sua traduzione scenica: una mise en espace o un reading? I due hanno un microfono ma l’uso di quest’oggetto è spesso scenico e non funzionale. E pure le lettere, altrimenti pesantissimi blocchi di micro-monologhi, diventano dialoghi che s’intrecciano alla cornice. Sì perché Chiara Lagani si è inventata di tradurre l’esperienza dell’isolamento da Covid in una prova a tavolino a distanza, vero campionario di tic della professione d’attore. Ma anche qui l’apparente semplicità della scelta drammaturgiCa è resa, è il caso di dirlo, “saporita” da una trasformazione delle schermate in tableau vivant che ammiccano alle declinazioni di postproduzione nella video arte contemporanea. Si pensi solo alle cromie accese di David LaChapelle o agli azzardi provocatori di Luigi Ontani.

Chiara Lagani & Luigi De Angelis, L'amore segreto di Ofelia. Teatro Romano, Verona 2020. Photo Francesca Marra

Chiara Lagani & Luigi De Angelis, L’amore segreto di Ofelia. Teatro Romano, Verona 2020. Photo Francesca Marra

LO SPETTACOLO DI LAGANI E DE ANGELIS

Esplosioni cromatiche, eccessi che esasperano i toni zuccherosi della corrispondenza epistolare annegandoli dentro ridondanze vegetali, accese cromie di frutta, lussuriosi grappoli di escrescenze floreali. La natura con i suoi labirinti ha un erotismo ben più crudo e sincero di quanto l’uomo riesca a mascherare nel trucco del suo perbenismo. Così se il verso lascivo costruito da Berkoff come contraffazione di quello originale simula amplessi pseudo romantici, ecco che ci pensa la natura a dirci come violenza ed erotismo siano l’humus nel quale immergerci senza pudore. Immagini anch’esse nella distanza tra didascalia e metafora. Polonio è un topo, e quindi appare nel video un topo. Una tangenza solo sfiorata, poi torna la distanza. “Applausi”, dice Chiara Francini, al culmine di un climax emotivo. Non ha senso fingere, non ha senso il rito, nemmeno quello che raccoglie i punti dispersi di una costellazione di segni orfani del loro senso.

Simone Azzoni

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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