Contro la censura: reportage dalla Biennale Teatro 2020
Per la Biennale Teatro 2020, svoltasi in un’inconsueta edizione settembrina, Antonio Latella per il quarto e ultimo atto della sua direzione ha ideato una programmazione tutta italiana in cui giocare a “Nascondi(no)” riflettendo intorno al tema della censura.
La Biennale Teatro 2020, giunta al quarto e ultimo atto della direzione di Antonio Latella, ha preso vita in un’inconsueta edizione settembrina. Inusuale è anche la calma che regna in città e gli spazi vuoti dell’Arsenale veneziano, privi di esposizioni in questo anomalo anno. Ma è tra questi spazi disabitati che Latella costruisce il suo Padiglione Italia Teatro, invitando il pubblico a giocare a Nascondi(no), non per celarsi ma per svelare, per portare alla luce tutto ciò che è occultato o relegato nell’ombra. Al centro della narrazione del festival è il tema della censura: etero o autoimposta, politica o linguistica, nata dalla violenza, dalla paura o dal pudore. Questa materia così ampia e insidiosa, riverberandosi negli sguardi dei vari autori, viene declinata nelle sue forme più diverse e inaspettate, nel tentativo di smascherare ogni nascondimento.
Latella punta i riflettori sul teatro italiano e, consapevole delle difficoltà e dei condizionamenti imposti dal sistema di produzione e circuitazione nazionale e internazionale, ha ideato una programmazione che mira a dare visibilità soprattutto ai più “svantaggiati”, giovani autori o rappresentanti di un cosiddetto teatro di nicchia oppure off. Sottraendosi in certo modo al suo ruolo di direttore artistico, Latella ha inoltre chiesto ad artiste e artisti invitati di creare delle opere originali per la Biennale, per evitare qualsiasi forma di censura subdolamente dettata dal pensiero pressante di programmazioni future, puntando sulle persone anziché sul prodotto. Nulla è dunque scontato alla Biennale 2020.
THE RIGHT WAY DI DANIELE BARTOLINI
Daniele Bartolini, che da anni vive e lavora in Canada, patria della tolleranza e del politicamente corretto, sfida il pubblico a mettersi nei suoi panni in The right way, una performance per singoli spettatori calati nella parte del regista. La scena da girare è l’incontro tra Adamo ed Eva, archetipo che ben si presta a intavolare un’indagine sul concetto di genere e sulla possibilità di smantellarlo, ma rispettosamente. Portando l’accortezza verso ogni individualità al limite, manifestandone così la fallibilità, il gioco proposto rende evidente, con un pizzico d’ironia, quanto ogni tentativo di inclusione sia, inevitabilmente, esclusione di un altro. Infine la scena viene demolita e non è chiaro se l’obiettivo di inclusività sia stato raggiunto, se a crollare siano immagini e definizioni stereotipate o piuttosto la reale e attuale possibilità di superarle, senza che lo spettatore/regista abbia avuto poi tanta voce in capitolo. Interrogandosi sul politicamente corretto la performance solleva inoltre la questione del ruolo dell’arte, se sia oggi quello di conciliare o di provocare e se sia in grado o voglia farlo, o assumersene le responsabilità.
KLUB TAIGA DI INDUSTRIA INDIPENDENTE
Fuori da ogni definizione identitaria, di genere, tempo o spazio, è il Klub Taiga di Industria Indipendente, “un dispositivo in divenire, un luogo nascosto e scuro, all’interno del quale vive e cresce un organismo pluripensante e agente, un unico corpo fatto di più corpi”. Da una nebbia fitta emerge una minuziosa scenografia, tappeti, divani e tavolini, abatjour tremolanti e chincaglierie varie ornano uno spazio allo stesso tempo riconoscibile e alieno in cui prende vita un concerto di teatro e di danza che sfugge a definizioni restrittive. Le parole pronunciate da Federica Santoro si srotolano nello spazio, fluiscono, si spezzano e si riformano riverberandosi nel canto di Steve Pepe e Yva&The Toy George, echi di una lingua slava che giunge alle orecchie quasi aliena. I performer abitano e si confondono con lo spazio, e non si sa se a muoversi sono loro o le luci stroboscopiche che tagliano la nebbia creando altri mondi, altri luoghi attraversati da ombre e corpi smembrati e poi ricomposti. Il Klub Taiga è uno spazio immersivo che anela a essere vissuto ed esperito dal suo interno ma, forse a causa del distanziamento sociale dovuto all’epidemia in corso, lascia il pubblico sospeso nel desiderio di entrarvi.
EVE#2 DI FILIPPO MICHELANGELO CEREDI
Affrontando la censura da tutt’altra prospettiva, Eve#2 di Filippo Michelangelo Ceredi sorgeva da un’indagine sull’hate speech e sul dilagante odio nella comunicazione, in particolare mediatica, ma nella sua evoluzione torna a una dimensione personale, intima, dove la violenza rimane sullo sfondo. Attraverso la storia dell’amico Paolo l’autore racconta la sofferenza e la depressione e si propone di aprire “uno spazio di battaglia contro la paura”, in cui stare con essa e affrontarla. La voce si alterna e si intreccia alla parola proiettata, e tra le righe affiora la solitudine vissuta in primavera, il timore della sospensione, una paura di incapacità di reazione che accomuna tutti. Ceredi disegna al suo suolo piccoli spazi chiusi, traccia linee sulle quali muoversi in equilibrio precario, e in un crescendo al suono degli Smashing Pumpkins costruisce una ragnatela: trappola labirintica o spazio di protezione? Mentre infine schermo e azioni scorrono a ritroso e tutto si cancella, è chiaro che da quel campo di battaglia non si esce vincitori ma certamente non ancora sconfitti. Una lotta contro la paura che innesca una censura sotterranea, che sta nel non detto, nel pensiero, in spazi interiori di innominabile dolore.
DENTRO DI GIULIANA MUSSO
Perché “il vero tabù è il dolore”, come da un altro palco, da Dentro un’altra storia (vera, se volete), afferma Giuliana Musso. E se “il teatro civile annoia e quello politico non ci ricordiamo nemmeno come sia”, ci pensa lei a ricordarcelo, affrontando il tema delicato, tanto straziante quanto urgente, dell’abuso sessuale su minore in famiglia. Senza scivolare nella retorica, la Musso porta in scena il dialogo con una madre, fatto di rabbia e dolore, di speranza e frustrazione nello scoprire che la verità è soggettiva e che la realtà non coincide con la giustizia. La ricerca dell’autrice è precisa, tagliente, si confronta con il sistema istituzionale e le sue mancanze, dialoga con tutte le assenze, sedie mute simboli di quel tabù, “silenzio che non ricopre la materia, ma diventa la materia”. Ma è la dimensione più umana, emozionale a dirompere da dentro il racconto, perché se è vero che “solo la verità ci può salvare”, è quella delle persone. Dentro è un dialogo, uno scavo, a tratti uno scontro, con l’esterno e l’intimità, cui l’artista non si sottrae, lasciandosi coinvolgere senza superficialità, non risparmiando niente, nemmeno al pubblico che vi assiste.
‒ Margherita Dellantonio
https://www.labiennale.org/it/teatro/2020
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