Danza. La lotta di Dimitris Papaioannou sotto una pioggia incessante
Debutto mondiale a Torinodanza e al Festival Aperto di Reggio Emilia, di “Ink”, la nuova creazione dell’artista greco Dimitris Papaioannou, artefice di un linguaggio scenico che intreccia il corpo con l’arte visiva, forgiando una personale mitologia contemporanea.
Le sue sono installazioni coreografiche, corporee, densamente materiche, tableaux vivants che si animano di visioni, di metafore, di una potenza immaginifica scaturita da un pensiero creativo, nutrito di arti plastiche e figurative, di storia e letteratura, e di quella manualità d’Arte Povera elevata a poesia pura. Spettacoli come Still life, Primal Matter e soprattutto The Great Tamer hanno fatto conquistare a Dimitris Papaioannou notorietà e consensi internazionali. Con commissioni importanti. Basti pensare al Tanztheater Wuppertal, che gli ha aperto le porte, nel 2018, per una nuova creazione, Since she, primo artista a raccogliere l’eredità della celebre compagnia di Pina Bausch dopo la sua morte.
LO SPETTACOLO DI PAPAIOANNOU A TORINO
Una nuova commissione è arrivata dal direttore artistico di Torinodanza, Anna Cremonini, per una produzione che coinvolge anche il Festival Aperto di Reggio Emilia diretto da Paolo Cantù. Ink è il titolo di questa creazione site specific. Inchiostro. Il suo colore nero serve a scrivere la vita, a segnare pensieri, sentimenti, emozioni. C’è, nella performance che ha debuttato al Teatro Carignano di Torino, anzitutto un vasto immaginario cinematografico, che include certe atmosfere piovigginose della poetica di pura magia di Tarkovskij (in primis Stalker), e quelle fantascientifiche di Blade runner; le pose scimmiesche di Kubrick di 2001 Odissea nello spazio, come le creature di Alien di Ridley Scott, e quelle di Critters, film horror di Stephen Herek. E c’è il mito greco di Kronos, il dio che divora i figli per non perdere il suo potere. Il sipario si alza su una fitta pioggia attivata da un irrigatore il cui gettito puntato in alto invade tutta la scena. Siamo dentro una stanza scura – una cavea, un rifugio antiatomico, uno spazio della mente? ‒ dalle pareti di cellophane trasparente, e con il palco invaso d’acqua. C’è un uomo vestito di nero – lo stesso Papaioannou ‒, officiante di un rito solitario che ha fatto dell’acqua il suo humus. Si muove a suo agio, sempre inzuppato, in quell’elemento naturale, azionando la potenza del sistema di irrigazione, diminuendola, posizionandolo, scoprendo i suoni e gli effetti visivi che il getto produce, riempiendo d’acqua una bolla di vetro e facendola roteare a terra. All’interno vi avrà immerso una sorta di viscida ameba, simile a un polipo, del quale farà un elemento determinante (in ultimo, con una piccola testa, assumerà le fattezze di un neonato preso in braccio). A rompere quell’oscuro mondo chiuso è una figura misteriosa che avanza sotterraneamente da lastre di plexiglass, avanzando e indietreggiando verso l’uomo che cerca di bloccarlo premendo con i piedi. Quando riuscirà ad alzarsi, lottando lo ingabbierà chiudendolo a cilindro, placandone la furia, e immobilizzandolo a terra. Liberatosi, il giovane si rivelerà nudo, bianco di pelle, in contrasto con l’adulto nerovestito. Una nuova lotta invertirà i ruoli e le posture dei due, sottostando ad altre posizioni di dominio, di seduzione, di complicità. La boccia sarà oggetto di equilibrio, posta tra le gambe e tenuta a testa in giù; diventa fontana, pallone di gioco.
MEMORIA E TEMPO SECONDO PAPAIOANNOU
A essere evocati in questa visionaria performance, che il cinquantasettenne artista greco ha creato insieme al giovane Šuka Horn, sono i mostri della mente, le presenze invisibili, le memorie del tempo e del dopo, il richiamo di figure ancestrali, l’oblio della coscienza, il conflitto con se stessi. Ad animare questo viaggio nei meandri della psiche è il desiderio di evoluzione, di cambiamento, di un nuovo attraversamento. Così, nel contrasto tra i due uomini, ravvisiamo la brama di paternità, di amore, di comando e sottomissione, tra attrazione e respingimento, seduzione e timore. I suoni cupi, lontani, metallici, mescolati sommessamente a vecchi motivi d’epoca appena accennati di Donald Novis, Isham Jones, Sofia Vempo, Leo Rapitis, trovano brevi attimi di melodia nella musica di Vivaldi proveniente da un vinile fatto suonare da un vecchio giradischi; mentre la semioscurità si illuminerà di una luce calda nella sequenza in cui il giovane avanza sprofondato, a suo agio, dentro un minuscolo campo di grano mangiando tranquillamente e osservando il partner sdraiato fuori, che a sua volta lo scruta.
Lo spettacolo procede per quadri non senza qualche fatica, pur nella brevità dei quaranta minuti, a legarsi drammaturgicamente, con momenti che ci sembrano vuoti, e che sicuramente saranno colmati nella versione lunga alla quale lo spettacolo è destinato.
‒ Giuseppe Distefano
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