L’esperimento Zona Rossa al Teatro Bellini di Napoli
Dal 20 dicembre scorso, 2 attrici, 2 attori e 2 drammaturghi/registi sono volontariamente rinchiusi nel Teatro Bellini di Napoli, ripresi da telecamere. Un segno di protesta contro la chiusura a oltranza dei luoghi dello spettacolo.
Un esperimento sociale, un percorso ascetico, una protesta pacifica, una provocazione di taglio politico, una residenza d’artista: Zona Rossa – il format ideato dall’attore e presidente del Teatro Bellini di Napoli Daniele Russo e dal drammaturgo Davide Sacco – è insieme prigionia e libertà. Prigionia, perché è dallo scorso 20 dicembre che 2 attrici, 2 attori e 2 drammaturghi/registi (Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, Pier Giuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna) sono rinchiusi dentro gli spazi del teatro napoletano senza poter uscire, senza contatti con l’esterno e sotto l’occhio delle telecamere; libertà perché, nella follia di aver accettato una proposta del genere – seppure in una modalità fortemente stressante –, i sei artisti possono comunque dedicarsi senza limiti e distrazioni all’atto creativo con la finalità di dare vita a uno spettacolo teatrale che nasce, si sviluppa e cresce in pseudo cattività portando con sé un bagaglio emotivo senza precedenti.
IL PROGETTO ZONA ROSSA
Piccole camere da letto ricavate nei camerini, telecamere sempre accese, una diretta streaming al giorno sul canale YouTube del Teatro e poi l’aiuto da casa: un appuntamento settimanale che mette in comunicazione gli artisti con il pubblico per un confronto fatto di scambi di idee, il tutto veicolato dal critico teatrale Alessandro Toppi (il Pickwick, la Repubblica) che, con la sua sensibilità artistica, è sicuramente un valore aggiunto all’esperimento. Ma non va chiamato reality, sarebbe un indicatore epistemologico fuorviante e darebbe luogo a un concetto riduttivo rispetto alle motivazioni e alle finalità che caratterizzano questo processo di creazione sui generis.
“Zona Rossa nasce come provocazione nei confronti di una politica che con troppa semplicità finge che il nostro mondo non esista accomunandoci ad altri luoghi di assembramento dai contorni nefasti come possono essere una sala bingo o una sala scommesse, ma è anche un atto d’amore nei confronti del Teatro, nella speranza che non debba trasformarsi e svendersi ad altri linguaggi pur di rimanere in vita”, così Daniele Russo riguardo alla sua idea, con dignità e orgoglio lontani da qualunque sentimento di livore e vittimismo.
IL TEATRO E LA PROTESTA
Il Teatro Bellini è noto per il riverbero che ha sulla città di Napoli in quanto a innovazione e sperimentazione, ma questa volta ci si è spinti oltre con una forma di protesta pacifica che possa attirare l’attenzione della classe politica su scala nazionale e per un intero settore di lavoratori. “Esistere e resistere! Questo afferma Zona Rossa” ‒ continua Russo ‒, “resta però l’amaro in bocca di essere partiti da soli come teatro in questa dura avventura, se avessimo avuto altri partner o se l’esperimento fosse partito contemporaneamente anche in altri teatri e città avrebbe avuto sicuramente un’eco molto più efficace e ridondante”.
L’ideatore del format racconta delle difficoltà che si articolano su vari piani e che riguardano forze avverse che agiscono dall’esterno, come l’indifferenza o l’inadeguatezza della classe politica nell’affrontare problematiche ataviche del settore teatrale che sembra conoscere veramente poco: ricordate la frase dell’allora premier Conte in pieno lockdown “e poi ci sono gli artisti che sono lì per farci divertire”? Se la visione che si ha del mondo dello spettacolo dal vivo è quella di giullare e di mero intrattenitore, va da sé che più di una spicciolata nel cappello e una rapida sensazione di pietà mista a seccatura per un comparto che continua instancabilmente a spingere per i propri diritti non si otterranno. Il secondo piano di forte attrito è quello interno, ovvero lo scollamento della categoria in tanti piccoli atomi che proprio non riescono a dar vita a un legame chimico duraturo, restando così isolati senza mai trasformarsi in qualcosa di veramente incisivo. Se solo i lavoratori dello spettacolo si unissero (fa molto marxista!), non ce ne sarebbe più per nessuno, ma l’autoreferenzialità la fa da padrone e ci si ritrova con troppi leader e debole massa, il contrario di qualunque rivoluzione.
IL FUTURO DEL TEATRO
Intanto la protesta va avanti e non è dato stabilire quando quest’esperimento sociale avrà fine, perché la condizione a cui tutti i partecipanti hanno dato il proprio benestare è che si tornerà liberi quando riapriranno i teatri al pubblico. E allora cosa accadrà? Si andrà subito in scena: si spalancheranno le porte del Teatro Bellini non appena un nuovo DPCM darà il via alle programmazioni teatrali, si inviterà il pubblico a riappropriarsi dei propri spazi e gli attori andranno in scena con quanto di pronto avranno in quel preciso istante.
“Gli attori sono lontani da ormai più di 50 giorni dal loro mondo, dalle loro abitudini, dai loro cari in un momento così destabilizzante come quello che stiamo vivendo e in cui proprio gli affetti sono ciò a cui tutti ci aggrappiamo, quindi non nego che stiano in grande sofferenza. Ma sono aiutati dal fatto di portare avanti un lavoro con grande dedizione e senso di appartenenza a una comunità, quindi si proteggono con la corazza della lotta”. Alla testa di una protesta pacifica, Daniele Russo mette insieme arte, cultura, politica nella consapevolezza che il lavoratore dello spettacolo non è solo l’artista in senso stretto, non è (soltanto) un sognatore, né un folle giullare, né tanto meno un individuo isolato, ma è parte di una categoria di lavoratori di un mondo – in Italia – sempre più dimenticato.
Con questo spirito ha incontrato gli operai della Whirlpool insieme all’attivista ivoriano Aboubakar Soumahoro che da tempo si batte per gli invisibili: la diretta dal teatro con gli attori reclusi, il confronto tra i lavoratori dello spettacolo e la classe operaia, la rabbia di sentirsi ultimi, la condivisione e la necessità di lottare in quella che ormai sta diventando un’eterna resilienza.
‒ Manuela Barbato
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