The Father. Intervista a Florian Zeller
Il drammaturgo sbarca sul grande schermo con una storia che parla di solitudine e vecchiaia. E del rapporto tra padre e figlia (con Anthony Hopkins protagonista)
Dal teatro al cinema e nella transmedialità – come spesso avviene – i linguaggi depositano eredità metalinguistiche. The Father – Nulla è come sembra, dallo scorso 27 maggio in Italia, è tratto dall’opera teatrale Il padre (Le père) scritta da Florian Zeller. L’autore firma la regia dell’adattamento cinematografico e la sceneggiatura con Christopher Hampton (Le Relazioni pericolose). Accanto ai premi Oscar Anthony Hopkins e Olivia Colman, nel cast ci sono anche Mark Gatiss, Imogen Poots, Rufus Sewell e Olivia Williams. Passato nei teatri italiani con l’interpretazione di Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere (regia di Piero Maccarinelli), racconta la caduta esistenziale di un uomo. Hopkins interpreta il ruolo del protagonista, un uomo indipendente finché l’aiuto della figlia non si rende essenziale: la realtà cambia improvvisamente, qualcosa crolla. The Father non è però solo un film sulla demenza senile: in gioco c’è il rapporto tra verità e realtà travolta e coinvolta nel prisma labirintico della narrazione. Nelle parole del regista, il pubblico dovrebbe provare la sensazione di “cercare a tastoni la strada in un labirinto”. In spazi che non sembrano veri, il film celebra inoltre l’indissolubile legame tra un genitore e una figlia abbracciati in un viaggio verso l’ignoto. Ne abbiamo parlato con Florian Zeller.
Il Padre era originariamente un’opera teatrale acclamata dalla critica. Come è nato il film?
Il Padre è un’opera che ho scritto più di otto anni fa. Volevo occuparmi di un problema in cui mi sentivo personalmente coinvolto. Mia nonna iniziò a soffrire di demenza quando avevo 15 anni, so cosa si prova ad attraversare il deterioramento. Ma quando l’opera è stata messa in scena per la prima volta, non ero certo che la gente avrebbe capito questo viaggio, e sono rimasto sorpreso e molto commosso nel vedere la risposta del pubblico. Era molto potente. Ogni volta gli spettatori venivano da noi dopo ogni performance per condividere la loro storia. I film sono fatti per condividere emozioni e far sentire le persone parte di qualcosa di più grande di loro, parte dell’umanità – anche quando tutto ciò può nascere dal dolore. È stato allora che ho deciso che volevo fare un film! Ma sono francese. Avrei potuto fare un film in francese, ma l’ho fatto in inglese, grazie ad Anthony.
Sir Anthony Hopkins è Anthony ne II Padre. Come è nata la scelta dell’attore?
Quando ho iniziato a scrivere, il mio pensiero andava in maniera insistente a Anthony Hopkins che considero il più grande attore vivente. Lo conosciamo come un attore intelligente che ha tutto sotto controllo. Ho pensato che sarebbe stato stimolante, inquietante, doloroso ed emozionante vederlo perdere quel controllo e vederlo in un mondo dove l’intelligenza non funziona più.
Ti ricordi il primo film in cui hai visto Anthony?
Sì, era Il silenzio degli innocenti impossibile dimenticarlo. Il motivo per cui ho pensato che sarebbe stato protagonista de Il Padre era proprio per l’opportunità di giocare con l’ambiguità tra quello che pensi che sia e il personaggio che invece interpreta nel film. Anthony è un maestro dell’ansia, dell’incertezza e del sottinteso. Il pubblico è intelligente e mi interessava che non capisse subito la sua demenza. All’inizio, proviamo quello che prova lui: sentiamo l’ansia di uno sconosciuto in un appartamento, come se fosse un thriller. Tuttavia quando guardi un thriller sai che non tutto è vero quello che vedi. Qui invece stiamo affondando tutti. Ed è davvero molto doloroso.
Come è stato il primo incontro con lui?
Quando l’ho incontrato la prima volta sono rimasto impressionato, lui è Sir Anthony Hopkins mi sono detto! È brillante, intelligente, ma anche molto umile. Ho capito che sarebbe stato facile lavorare con lui. Abbiamo parlato molto di quello che avrei fatto come regista. Ho capito che non avrebbe lavorato per sé ma per le emozioni che volevo esplorare.
Il personaggio di Anthony porta il nome e la data di nascita dell’attore. È stata una sua decisione?
No, mia. Quando ho scritto il copione, sognavo di fare quel film con Hopkins. All’epoca sembrava improbabile, questo era il mio modo per renderlo un po’ più reale. Era un modo di pensare a lui mentre scrivevo la sceneggiatura. Avrei potuto cambiare il nome più tardi, ma era significativo per me ed era un modo per fargli sapere quando gli ho mandato il copione, che avevo pensato a lui. Per lui è stata una possibilità di parlare di sé senza manifestarlo fino in fondo.
Olivia Colman interpreta la figlia ne Il Padre. Perché hai scelto lei?
La volevo davvero per quel ruolo. La amo come attrice: così umana e fantastica, e c’è anche qualcosa di magico nelle sue capacità. Appena la vedi sullo schermo provi empatia nei suoi confronti. Non è solo la storia di un uomo che perde la testa, è la storia di una figlia che affronta un dilemma doloroso.
Quali sono state le sfide nel portare Il Padre dal palco allo schermo?
Ho mantenuto la narrazione della pièce per cercare di raccontare la storia “dall’interno”. Il set è stata un’opportunità per me di giocare con la sensazione del disorientamento. Non volevo che Il Padre fosse solo una storia, volevo fosse un’esperienza. L’esperienza della frustrazione, della rabbia e dell’ansia per la perdita dell’orientamento viene dal teatro, ma volevo che fosse restituita nella forma cinematografica possibile. Così, ho provato a fare quello che solo il cinema può fare, l’utilizzo dello spazio in modo cinematografico. Quando ho scritto la sceneggiatura, ho anche disegnato il layout, come se fosse un altro personaggio della storia. All’inizio del film siamo nell’appartamento di Anthony. Riconosciamo il suo spazio, ma sullo sfondo, passo dopo passo, abbiamo alcuni piccoli cambiamenti nella sua configurazione: sembra di essere lì ma forse si è da un’altra parte. Manca la certezza, s’insinua il dubbio. Ho seminato il set di corridoi e porte. Ho scelto di girare il film in uno studio, per avere la libertà di giocare con questo labirinto.
Speri che il pubblico capisca cos’è la demenza, da questo film?
No, la mia speranza non è che le persone capiscano, ma che vivano e condividano un’esperienza emotiva.
Questo particolare periodo, il 2020, ha cambiato il significato del film?
È difficile da dire, dato che ci siamo ancora dentro, ma sono d’accordo con te che tutto ha un nuovo significato, abbiamo tutti attraversato il lockdown, quando non potevamo visitare le persone che ci sono care, quando eravamo tutti collegati alla fragilità della vita, Il film parla di questa fragilità e del rapporto di due umani, e della tenerezza che ne deriva.
Questo è il tuo primo lungometraggio. Ne seguiranno altri?
È stata un’esperienza intensa. Sono un drammaturgo ma dal palco non sempre ottieni quello che vuoi. Il cinema invece ti consente di fare tutto, se lavori con attori che ti permettono di farlo. Sono felice ma se non piacerà è tutta colpa mia; è stata una gioia, e spero che non sarà l’unico.
–Simone Azzoni
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