Pastorale. La coreografia di Daniele Ninarello in tournée
Il quartetto “Pastorale”, coreografia del giovane Daniele Ninarello, sta percorrendo l’Italia. Da Milano a Sansepolcro.
Il 19 maggio, al Teatro Franco Parenti di Milano in occasione del festival Più che Danza!, Daniele Ninarello ha presentato Pastorale, un’opera che pone il corpo al centro del sapere coreografico per riflettere sull’incontro con l’altro come occasione per la costruzione di nuove geografie. Lo spettacolo sarà il 19 e 20 giugno al Fertili Terreni Teatro di Torino e poi ai festival Inequilibrio (Armunia) e Kilowatt (Sansepolcro).
Il titolo ripropone un altro Pastorale (Rhythm), quello di Paul Klee, da cui il coreografo eredita l’inclinazione alla ripetizione di segni, che da grafici diventano corporei, ritmici e musicali. Le sequenze presenti sul dipinto sono la suggestione intorno alla quale Ninarello costruisce una pratica in cui ogni singolo gesto è il risultato di un complesso sistema di ascolto e incorporazione.
LA COREOGRAFIA DI DANIELE NINARELLO
Pastorale è la risposta che Daniele Ninarello propone di fronte alla nostalgia dell’unisono, di un’unità in cui incontrarsi e sostare non come in un modello normativo ma in modo equivalente, fuori da ogni gerarchia. L’invito ad accordarsi è palesato dalla prima immagine che riceviamo; in un ambiente neutro il rettangolo dorato pensato da Gianni Staropoli percorre l’intera lunghezza del palco come una presenza mistica, silenziosa ma ingombrante, accompagnata dal basso continuo del compositore Dan Kinzelman, che richiama l’esperienza della world music e del suo antesignano Moondog. Una suggestione visiva e sonora che riaffiora costantemente come un diapason a cui guardare per sincronizzarci all’interno dello spazio emotivo generato dalla progressiva articolazione dei gesti. Ciascun performer coglie davanti a sé i gesti dell’altro, li abita e li rilancia in un processo di scrittura collettiva che termina solo perché l’opera, per essere intellegibile, ha bisogno di una forma con un inizio e una fine. L’orizzontalità delle quattro presenze, che genera un sistema in cui tutti muovono e sono mossi, è la conseguenza di un corpo esposto e disponibile, che si fa carico della propria presenza e di quella dell’altro. Ogni performer dà la possibilità all’altro di dire ciò che è scritto sul proprio corpo e rinegoziarlo. Le risonanze che persistono per l’intera durata dell’opera, scandite da pause di diversa natura – il silenzio iniziale, l’improvviso buio che amplifica la percezione sonora dei movimenti, la stasi dei corpi che negano la disposizione geometrica iniziale per assumerne un’altra parallela al fondale e rilanciare nuove gestualità ‒, sono gli strumenti per generare quell’unità aperta e mai ultimativa a cui i quattro performer non si sottraggono e di fronte alla cui mancanza l’opera ha via via preso forma.
ABITARE IL MARGINE SECONDO NINARELLO
Ciò a cui assistiamo è l’atto dell’indugiare per una durata di circa 50 minuti in uno spazio di transito, di rinegoziazione costante della propria presenza, della propria gestualità e della propria collocazione, uno spazio di sospensione in movimento che non cerca soluzioni.
Lo spazio agito diventa un campo di strutturazione di nuove soggettività in costante vibrazione, uno stato di margine tra due forze della stessa intensità ma contrapposte. Alla concentrazione rivolta verso l’interno fa da contrappeso l’attenzione che ciascun performer rivolge agli altri. Il risultato è la nostra postura nel mondo.
Si ha la sensazione di assistere alla creazione di un’esperienza di margine: una sorta di momento di rottura, di cambiamento radicale per rivalutare ed eventualmente sostituire le strutture simboliche preesistenti. I soggetti coinvolti, sospendendo momentaneamente le proprie archeologie, hanno rinunciato al proprio ruolo, all’identità costruita e inscritta nei loro gesti, si sono posti come equivalenti in uno spazio orizzontale. L’aspettativa di un nuovo status, che segue il momento liminale, viene tuttavia disillusa, nessuna nuova formula su cui fermarsi. I performer interrompono il loro camminare secondo schemi liberi circolari e si dispongono su una linea dritta, ma la rinegoziazione ricomincia, nuovi gesti affiorano e vengono condivisi. Abitare il margine, secondo Pastorale, significa comprendere e riappropriarsi della scrittura gestuale inscritta nel corpo da un complesso sistema di istanze esterne sociali e culturali e smettere di vivere il gesto in maniera patologica.
IL TEMPO QUEER DI PASTORALE
Di fronte a Pastorale si ha l’impressione di assistere a una durata che mina l’idea di scorrere del tempo con cui inevitabilmente tutti ci confrontiamo. La trasmissione dei gesti crea una serie di sopravvivenze che affiorano, scompaiono e ritornano in ciascuno dei performer. Dopo una prima fase di progressiva accumulazione di nuovi gesti, i performer indugiano nella condivisione dello spazio e dei movimenti senza tralasciare le più piccole sfumature individuate collettivamente. Ed è qui che il corpo diventa simultaneamente il luogo di ciò che è già stato, di ciò che accade e di ciò che arriverà, aprendo a una temporalità non lineare e non evolutiva, ma apertamente queer. Il tempo si è inceppato, come in una sorta di glitch di sistema che ha aperto una soglia in cui passato, presente e futuro si piegano l’uno sull’altro, rompendo l’ordinaria catena di eventi distribuiti secondo una logica di causa-effetto. Esattamente come in Nombres di Philippe Sollers, da cui l’autore trae ispirazione, gli “eventi” si susseguono secondo un ordine in cui la percezione del presente, la memoria del passato e il preannuncio del futuro sembrano costituire un’unità simultanea. L’idea di consequenzialità del tempo cronologico decade a favore di una durata come stasi.
– Alessia Prati
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