Biennale Danza di Venezia. Spettacoli che parlano di corpo, amore e morte

Il “grado zero” della danza messa a nudo da Iratxe Ansa e Igor Bacovich e i cordiali saluti di Marco D’Agostin sono andati in scena alla Biennale Danza di Venezia. Ecco il nostro reportage.

È, come dal titolo, Al desnudo, una messa a nudo del loro linguaggio, del bagaglio fisico e concettuale che sta alla base della pratica coreografica in atto. Un processo creativo diventato metodo che vede nella prima parte della performance ‒ presentata alla Biennale Danza di Venezia ‒, un duetto ad alto tasso di fisicità. La tensione dei corpi di Iratxe Ansa e Igor Bacovich, danzatori e coreografi, ideatori della compagnia Metamorphosis Dance, attivi a livello internazionale e da poco residenti in Spagna, premiati e riconosciuti come una delle realtà più importanti della danza contemporanea, è condotta, tra snodi e intrecci, mani svolazzanti, prese avvinghianti, sulla musica di Philip Glass.

AL DESNUDO DI IRATXE ANSA E IGOR BACOVICH

La relazione tra un uomo e una donna di un classico passo a due, avvolgente e sensuale nel loro intenso crescendo poetico, corroborato da una tecnica d’acciaio, è presto compiuto per lasciare posto a una seconda parte totalmente differente. Il racconto, il training del processo creativo di decostruzione che mostra i meccanismi della creazione. È come entrare in un altro spazio mentale, oltreché fisico; un luogo pulsante di immagini, di movimenti, di esercizi, di istruzioni, di posture sempre cangianti, per arrivare – secondo le intenzioni degli autori – a una sorta di “grado zero” della danza. In questo laboratorio di esperimenti coreografici, simile a un set fotografico creato dalle geometriche installazioni al neon dell’artista visivo Danilo Moroni che irrompono a vista da un punto all’altro della scena, Ansa e Bacovich si alternano singolarmente o in coppia guidandosi l’un l’altro, attivando tutti i sensi, voce compresa, nel loro ricercare una scrittura sui corpi, creativa, anche animalesca, mossi dalla pulsante partitura elettronica di Johan Wieslander. A rompere quella che potrebbe sembrare solamente un’algida sequenza di studio dimostrativo, una pur complessa e dinamica architettura di movimenti ripresi a tratti da una telecamera live, sono alcune brevi sequenze video in bianco e nero con i loro volti ingranditi, come a voler carpire emozioni e sentimenti dalle loro espressioni e dai lenti gesti delle mani sul viso. I due confluiranno nuovamente in un duetto circoscritto da trascoloranti luci al neon disposte sul fondo e in proscenio, creando una dilatazione dello spazio e, contemporaneamente, una dimensione intima. Che si prolungano con lo spegnersi delle luci lasciando continuare all’immaginazione il senso di una danza senza fine. Una danza pura con al centro solo il corpo.

Best regards di Marco D'Agostin. Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Best regards di Marco D’Agostin. Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

BEST REGARDS DI MARCO D’AGOSTIN

Danza, canta e soprattutto recita. Un lungo monologo guardando sempre il pubblico, alternato poi a momenti di danza con microfono in mano; quindi muovendosi e affannandosi in maniera disarticolata tra oggetti depositati sul bianco tappeto che si allunga su una tenda da cabaret sul fondo, porta di ingresso e di uscita dell’artista sulla quale scorreranno molte scritte luminose. Parole e frasi che “richiamano” in scena Nigel Charnock. Ed è un omaggio al celebre performer inglese lo spettacolo di Marco D’Agostin Best regards, i “distinti saluti” con cui si chiude una lettera in inglese. L’incontro con il celebre fondatore del gruppo DV8 negli Anni Ottanta, poi staccatosi per un percorso personale da solista dai memorabili assoli, “ha segnato in modo netto il mio modo di pensare la danza”, confessa D’Agostin. Un tributo dovuto, quindi, Best regards, un gesto di riconoscenza che prende spunto da una lettera mai recapitata che Wendy Houstoun scrisse all’amico e collega Charnock, pochi giorni prima che lui morisse prematuramente nell’agosto del 2012. Il flusso di parole intorno al significato di scrivere una lettera, disquisendo e citando celebri scrittori ed epistolari, occupa l’inizio dello spettacolo per poi farsi accumulo di movimenti, di canzoni, di oggetti – una bottiglia, un cartello con delle scritte, un giocattolo per bolle di sapone, uno zerbino, ecc. ‒, da far esplodere dentro e fuori lo spazio della performance, come a voler emulare il senso tragico ed esilarante del maestro, in uno one-man-show facendo sua la lezione che tutto può succedere e tutto si può far accadere in scena.

MARCO D’AGOSTIN E NIGEL CHARNOCK

Eri troppo divertente. Eri troppo fisico” è solo una delle molte frasi che D’Agostin cita, mentre fa affiorare i suoi fantasmi personali nel gran gioco della performance, della quale, pur ammirando la sincerità delle intenzioni e l’indiscussa bravura ed energia in campo, si può non condividere il mix di nonsense per parlare di amore e di morte – quel “Dear N, I wanted to be too much too (“Caro N, anch’io volevo essere troppo”) che scrive a Nigel ‒ e l’eccessivo uso della parola, a scapito di una scrittura coreografica più danzata. Dopo una sequenza di movimento eseguito nel silenzio guardando noi spettatori, in chiusura dello spettacolo, D’Agostin si fa recapitare in busta chiusa una lettera scritta da Chiara Bersani, collega performer, che ci leggerà a luce piena in sala, per lasciarci infine con una canzone, più volte ripetuta, dedicata a Charnock: “Sei morto perché io potessi vivere e danzare”. A suo modo D’Agostin.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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