L’estate dei festival di danza. Tutti i nostri reportage
Da Dro a Venezia e a Sansepolcro, passando per Ravenna e tornando a Vicenza, la ricerca per i festival estivi di una danza che non fa sconti incrocia l’incredibile performance queer di Ivo Dimchev con quella degli ungheresi Hodworks e il suggestivo Paradiso del gruppo nanou. Ecco un primo reportage dalle kermesse dedicate alle arti performative.
Servono idee, non c’è dubbio. Ma anche nuove consapevolezze. Di cosa? Il sistema italiano della danza sembra balbettare quando si tratta di animare il dibattito culturale contemporaneo. Quando prova a riflettere sullo stato dell’arte, come è successo al Kilowatt Festival di Sansepolcro in un incontro dal titolo Next Generation Dance (18 luglio), l’eco che si raccoglie è la pretesa (irresponsabile) della critica che opera nel settore formativo (e produttivo) di considerare il talento (ossia le forze da riconoscere in campo e da sostenere) come qualcosa di innato (affinché, soprattutto, sia preservata l’autorità e ogni pretesa di chi si sente invece nel pieno diritto, forse per via divina, di riconoscerlo). Servirebbero invece nuove gerarchie, non più giocate tra un passato normativo e il presente sempre in perdita. E nuovi saperi: se non si entra in studio, a guardare, a riflettere e a parlare, ma dalla parte della danza (tutor o dramaturg che dir si voglia), su ciò che può accadere di nuovo anche attraverso processi di confronto feroci (perché sinceri e senza sconti) sulla composizione coreografica, è difficile poi aggiornare i propri strumenti di lavoro e di analisi.
Ma la verità è che, se non assente dai maggiori festival, la danza italiana appare a volte ripiegata e compressa dentro inerti retrospettive che inducono a riprodurre paro-paro le stesse strategie ‘sovraniste’ pre-pandemia (ossia: consenso subito, possibilmente su tutto, banalizzando ogni problema purché faccia presa, e pazienza). Il tema del cigno (ancora?) in tutte le scuole e salse, come risposta epocale alla morte del presente sembra, alla fine, solo il plot di un’ennesima brutta pubblicità: dove c’è cigno c’è danza…
IL TEMPO DILATATO A CENTRALE FIES
Macché. E verrebbe da dire che contano, in fondo, solo le eccezioni. A partire ad esempio da chi rallenta, o dilata il tempo nella fiducia di uscire dall’attesa. È stato così con il queer pacato e dimesso, pure malinconico e arreso, di Ivo Dimchev (Songs from my shows) visto a Centrale Fies, in una programmazione curata da Barbara Boninsegna e Marco D’Agostin, tutta incentrata sul momento del “prima”, su quello che precede ciò che accadrà compiutamente poi, forse, altrove.
Se l’accesso libero al tempo del farsi delle pratiche (D’Agostin, ma anche Sciarroni, Giannotti e Bersani), esposte come una forma irrisolta di accompagnamento del pubblico, finisce per essere (anche) una noia pazzesca, sarà pure da ascrivere, questa noia, a un’esperienza dell’improduttivo o (con Anne Carson) a un’economia dell’imperduto. Mentre sembra colpire il segno l’invito, tutto spaziale dunque fisico e mentale, di F. de Isabella con la sua installazione Diciottanni. Due diverse stanze, senza azione né performer, piene di libri e di pietre e di eros: un tempo consapevole di meraviglia e accoglienza che, se interrogato, subito si rivela.
IL RITORNO DEL PUNK ALLA BIENNALE TEATRO
Una delle performance più interessanti di questo luglio per i festival ha chiuso il programma di Biennale Teatro (direzione Ricci-Forte). Gli ungheresi Hodworks con Sunday, la coreografia molto fisica di Adrienn Hód e la drammaturgia metacritica di Ármin Szabó-Székely, hanno riflettuto su cosa è oggi la danza a partire dal tema del ritardo mentale. Cinetico e psichico, sembrerebbe: i danzatori subito raccontano al pubblico che stanno recitando ruoli di ritardati mentali, nel corpo e nel linguaggio, in scena, ma che lo sono molto meno degli spettatori ignari, venuti invece a vederglielo fare.
L’arte non può redimere i conflitti (anche, nuovamente, di classe) che possono nascere da tanta inconsapevolezza, ma può farli scoppiare in tutta la loro forza reintegrativa. Difficile non esserne travolti, interrogati, infastiditi, alla fine come ipnotizzati dall’energia punk di questi corpi disposti a tutto, perché dirompenti e mai concilianti. A contraggenio, viene da pensare al patinato debutto, per Danza in rete a Vicenza, di Punk. Kill me please, nuovo lavoro di Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco. Il carico retrospettivo del titolo fa subito emergere tutta la sua necessità, ma poi una drammaturgia elementare, sorretta da un vero cinismo nelle scelte musicali, finisce per ristabilire quelle gerarchie che pretenderebbe criticare. È un po’ disperante ascoltare I wanna be your dog degli Stooges e vedere in scena compite geometrie di corpi che si muovono a specchio, come per ricreare un ordine da poter poi disattendere. Qui non vi è alcun tipo di critica né disubbidienza nei corpi, e alla fine nulla qui è punk, nemmeno gli applausi che sono i più tradizionali e rispettosi del mondo: proprio come all’oratorio.
UN PARADISO DI OMBRE AL RAVENNA FESTIVAL
Realizzato in sinergia con l’artista visivo Alfredo Pirri, Paradiso del gruppo nanou ha debuttato invece a Ravenna Festival. Il progetto coreografico si compirà solo nel 2022, ma intanto in questa prima bozza lo statuto delle anime beate sembra coincidere con quello delle ombre. Su un tappeto riflettente a larghe strisce argento e oro, con lentezza e continuità si dispongono queste anime danzanti, di fronte a 33 spettatori alla volta per 33 minuti durante 7 appuntamenti ripetuti nei 3 giorni di repliche. Tanta rispettosa simbologia potrebbe risultare oppressiva, ma non lo è. Mai visti tanti beati così prossimi ai mortali: in questo lago di specchio, come un’acqua che sembra ghiaccio (e in Dante è il centro dell’Inferno), il movimento continuo è un morbido release (sempre troppo lo stesso, però) con spin e spirali e passi lenti, in cui quasi niente è repentino. Qualcuno si affanna in grandi sbracciate sulla diagonale, mentre poi un Dante in accappatoio rosso compare spaesato con tanto di occhiali da piscina specchianti e pinne sur tone. In un punto, le presenze in scena (vestite sempre con grande eleganza) sollevano il tulle che ricopre il volto per dire parole a noi, che siamo lì eppure non sentiamo. La più vera salvezza è infatti l’immaginazione.
‒ Stefano Tomassini
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