Danza e teatro. Reportage dai festival estivi
Dalla coraggiosa riflessione sulle sex-workers di Francesco Marilungo alle incursioni urbane di Nicola Galli e alle escursioni nel teatro tragico dell’inossidabile Enzo Cosimi, secondo capitolo del nostro reportage dai festival di teatro e danza estivi in Italia.
In una delle sue ultime lettere da Roma (14 maggio 1900), Oscar Wilde commentava quanto fosse malvagio “comprare l’amore e venderlo”, non senza esclamare subito però: “Quali ore purpuree si possono strappare da quella grigia cosa che si snoda lentamente e che chiamiamo Tempo”. Francesco Marilungo ha perfettamente messo in scena questa aporia, piena anche di ribelle nostalgia, nel suo Party Girl, che ha debuttato in prima nazionale al Kilowatt Festival di Sansepolcro. Nei corpi, difficilmente descrivibili in tutta la loro forza, di Alice Raffaelli, Roberta Racis e Barbara Novati, e tra reperti video dei “luoghi di frontiera” del sesso a pagamento (hotel, club, privé). La composizione è in real time: la voce fuori campo di Marilungo ingiunge strategie di seduzione, rallentamento, sospensione ed esibizione fino alla coercizione cui progressivamente le figure in scena si congedano. Non in un rifiuto di penitenza o di riparazione, ma riaffermativo della legittimità di quelle ore purpuree finalmente sottratte al tempo grigio dello sfruttamento.
L’ORIENTE COLONIZZATO DI NICOLA GALLI
In una bellissima azione urbana dal titolo Il mondo altrove: un dialogo gestuale, Nicola Galli ha condotto gli astanti per le vie del centro di Sansepolcro fino ai giardini intestati a Piero della Francesca. L’azione dinoccolata e poliritmica con tanto di maschera scenica è stata immediata, conturbante, in una prossimità di spettatore e natura che non ammetteva mediazioni, di grande forza performativa perché capace di prendersi tutti i rischi di una mobile e promiscua contiguità.
La sera, poi, per Il mondo altrove sul palco, con Margherita Dotta, Silvia Remigio e Nicolas Grimaldi Capitello, nell’artificiale distanza di una scena essenziale e algida, un po’ étagère di esotiche silhouette, ma normatissima con uomo bianco (quasi) sempre al centro, due figure femminili asservite e di decoro, e antagonista (assai) dinamico a contrasto, fra mille chimere esoteriche e improbabili orientalismi iniziatici, sorretto da una musica bellissima (Scelsi) tutta evocativa, mille dubbi sono esplosi. Soprattutto perché qui occorrerebbero domande più urgenti, schemi più aggiornati, scelte più rischiose capaci di spostare e generare nuovi corpi e meno normate relazioni, piuttosto che colonizzare, alla solita maniera, nuovi mondi.
LA LIBERTÀ DI ENZO COSIMI
È stato un vero piacere ritrovare, sempre a Sansepolcro, Enzo Cosimi con un lavoro di straordinaria intelligenza scenica (dal vivo anche l’icona della musica techno sperimentale Lady Maru) e drammaturgica (grazie alla sponda felice di Mariapaola Zedda). Questa versione teatrale di Coefore Rock & Roll è anche il più vero omaggio al mondo visionario di Mike Kelley, cui si ispira: le delimitazioni del palcoscenico sembrano meglio corrispondere al progetto unitario, per niente aperto all’estemporaneo, di Cosimi che lavora ormai con una libertà e un sapere oltre il bisogno di alcun giudizio: qui il mito tragico è assunto in modo quasi didattico in tutta la sua compiuta evidenza (e forza) poetica. Francesco Saverio Cavaliere e Luca Della Corte sono in due Oreste, mentre Alice Raffaelli è Clitemnestra, e Roberta Racis è Elettra: il matricidio raccontato da Eschilo come un’apologia della fine è anche, per Cosimi, nuovamente, il difficile e insieme inderogabile principio di un tempo tutto nuovo, irreversibile.
I COMPROMESSI DI MICHELE DI STEFANO A VICENZA
Ha in parte deluso, al Comunale di Vicenza, l’attesa visione di Bayadère. Il regno delle ombre di Michele Di Stefano per il Nuovo Balletto di Toscana di Cristina Bozzolini (sempre da applaudire per le generazioni di interpreti delle quali si è fin qui presa cura). Questa revisione si limita al III atto del balletto originale, il Regno delle Ombre e del sogno animato del guerriero Solor stordito dal narghilè. Ma di ciò resta un’insistita centralità del guerriero, e un circostante sempre in movimento. Le consuete modalità compositive per istruzioni di Di Stefano (belle da non voler vedere altro), qui magistrali in corpi così tanto all’altezza, si alternano con blocchi di gruppo che tentano invece un difficile unisono: è citazione da Petipa, ma sembrano un brutto squadrone. Non mancano momenti dinamici, sempre bellissimi, con fluenti avvitamenti da quinta a quinta, su una musica perfetta e centrata di Lorenzo Bianchi Hoesch, inutilmente integrata con inserti musicali dalla partitura originale di Minkus. Ne risulta un bizzarro montaggio, sempre fuori tono, e pure fuori suono: inserti che prevedono in scena anche un intenso assolo danzato, senza mai dare però l’impressione che siano idee, non compromessi.
Vi è poi una posa a terra con una sensualità da rotocalco (in appoggio laterale su braccio piegato con gamba sotto allungata e sopra flessa per l’esposizione del fianco), che ritorna come un refrain visivo insoffribile. Giusto prima di un finale con la compagnia in linea a proscenio e in uscita in quinta: di nuovo, è citazione diretta dell’originale avvio di atto di Petipa, ma il risultato è un po’ Rockettes. E allora tanta ossessione di precisione sembra solo sostitutiva.
‒ Stefano Tomassini
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