Performance, madrigali, installazioni e film al Festival Oriente Occidente di Rovereto
Dal Festival Oriente Occidente di Rovereto arrivano precise ed efficaci risposte alle questioni del presente- A fornirle sono Daniele Ninarello, Balletto Civile, Chiara Bersani e il meditatissimo dancefilm di Stefano Mazzotta.
Il Festival Oriente Occidente si è aperto con il ritorno dello spettacolo storico di Hofesch Shechter, Political Mother (2010) nella versione remix e Unplegged (2020), con aggiunte e spostamenti di brani musicali. Per esempio, Bach è interrotto da silenzi pieni di buio e di vento. È la rivoluzione sempre imminente, di là da venire, ora nei corpi junior della Hofesch Shechter II. Dopo dieci anni, il lavoro è potenziato nella retorica messa in campo contro i poteri oppressivi delle ideologie, ma è cupo e lungo da stufarsene: gotico ed esposto tutto in stile pre-Covid. La disarmante pochezza di vocabolario di movimento di Shechter (sono quasi sempre le stesse routine) esaurisce questo lavoro tutto nei ritmi e negli effetti visivi. Batterista di formazione, Shechter pensa ritmicamente ma pochissimo in termini cinetici, e fa sorridere leggere di lui come “un autore”.
NESSUNO È OK DI DANIELE NINARELLO
Più dirompente perché più ponderato è invece Nobody Nobody Nobody. It’s ok not to be ok, assolo dell’artista associato al festival, Daniele Ninarello. Anticipato da una installazione site specific negli spazi di transizione del Mart, in avvio della performance lo troviamo disteso a terra, culo all’aria, come ciò che resta di un corpo violentato, con chitarra elettrica in continuo loop. Una volta in piedi, ingaggia una lotta di protesta contro l’invisibile: pugni, braccia e calci nel vuoto che opprime, in un ambiente elettrico di glitch music. Spazio teso e tempo interrotto perché la ferita ha bisogno di essere esposta prima di trovare cura. Al termine si siede, accorda la chitarra e canta (elettrico unplugged) E la luna bussò: la ricerca della luna così si sovrappone al bisogno di smontare i propri fantasmi. Poi fa l’appello dei presenti (che hanno consentito a essere nominati: una chiamata che vuole volontà), prima di ascoltare di nuovo Loredana Bertè, registrata, e danzarsela come fosse solo in casa, in tutta una gestualità da TikTok. In questo spazio in cui è possibile mostrare la propria vulnerabilità, questo corpo “abbandonato” alla propria reclusione prova a sciogliere i traumi nella ricerca di un nuovo, non distruttivo, vincolo con la vita.
LA BALENA BIANCA DI CHIARA BERSANI
È molto coraggiosa la realizzazione di Moby Dick, lavoro commissionato a Chiara Bersani per la compagnia svedese di danza integrata Danskompaniet Spinn. La capacità di mettersi in gioco, restando fuori scena per controllare tutto il processo, ancora non arriva a un pieno controllo delle cadenze e delle visioni inseguite, sostenute però qui dalla mirabile, efficacissima partitura sonora di Ilaria Lemmo. La balena bianca di Melville, per Bersani, è tutta nel tempo lungo e rallentato della sua attesa: l’epifania sempre rimandata e sempre a venire azzera le smanie di ogni viaggio mascherato dall’alibi della conquista.
MNEMOTECNICA DI BALLETTO CIVILE
Di grande intelligenza compositiva è la creazione site specific di Michela Lucenti e Balletto Civile, 20 Di/versi madrigali contemporanei, realizzata con volontari del territorio trentino. Sono tutte biografie in azione simultanea, con i madrigali di Monteverdi in sottofondo. È tutto costruito come un vero e proprio teatro della memoria: una mnemotecnica affettiva con una parte fissa (i volti ingigantiti dei partecipanti) e una parte mobile (l’azione dissidente alla quale, nella loro postazione, danno vita). Così come del madrigale contengono la forma libera e lirica, anche le identità tutte diverse e tutte equivalenti di ognuno, qui agite in forme personali e trasfigurate, generano una memoria incarnata del ‘proprio’ madrigale: sempre unico, però condiviso.
IL DANCEFILM DI STEFANO MAZZOTTA
È da segnalare infine la proiezione del film di Stefano Mazzotta, I poveri (tratto dal romanzo Os Pobres del portoghese Raul Brandāu). Opera di grande maturità estetica, il cui interesse non sta tanto nei temi interrogati (che probabilmente si ritrovano tutti nel parallelo scenico Elegìe delle cose perdute di Zerogrammi), ma per alcune scelte formali per niente scontate: l’insistenza sull’inquadratura fissa, composta solo di stacchi, e con pochissimi movimenti di macchina. Tutto sembra bloccato, anche la danza che documenta. Più che un’elegia su ciò che è perduto sembra potersi cogliere in questi corpi muti il silenzio delle cose presenti: una “fiumana di miseri” costretta a un esilio morale (non per forza geografico) e dal tempo (che esige narrazione). Mazzotta spiega che il tempo fermo dei personaggi ripete la dimensione fotografica della natura dei ricordi: ed è un modo di trattenere, in fondo, ciò che appare rétro, mentre è soltanto in ritardo.
‒ Stefano Tomassini
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