L’installazione-performance di Luigi De Angelis che unisce Barocco e contemporaneo
Andata in scena al Romaeuropa Festival, l’installazione multischermo di Luigi De Angelis affronta temi universali come il dolore, mettendo in dialogo passato e presente.
The Garden di Luigi De Angelis è una installazione multischermo con performance live della cantante Claron McFadden e musica elettronica in live looping di Emanuele Wiltsch Barberio: una videoinstallazione/concerto che “naviga fra la natura morta barocca e un rituale contemporaneo” che va ad arricchire il repertorio dei formati che nel XXI secolo hanno deflagrato oltre la cornice del palcoscenico ‒ site specific performance, architettura performativa, bio-sculture, living installation. Su sette schermi rettangolari allineati in verticale appaiono volti di persone – donne e uomini – di età diversa in procinto di piangere. L’immagine è in lento movimento, i volti guardano frontalmente, mentre la voce di McFadden ci consegna un repertorio di lamentazioni composte da Johann Christian Bach, Claudio Monteverdi, John Dowland, Nina Simone e altri in una stratificazione di voci.
THE GARDEN DI LUIGI DE ANGELIS
Le immagini che appaiono sui sette schermi di The Garden propongono ritratti e paesaggi, due formati stabilizzati nella storia dell’arte occidentale, perché il paesaggio è il luogo originario dove tutte le immagini si radunano, è il luogo intermedio dove avviene lo scambio fra il dentro e il fuori, una soggettività incarnata in un volto in cui emozioni, reazioni del corpo risuonano come figura del paesaggio.
L’autore ci chiede: “Quali sono le storie del nostro tempo che riverberano questa sofferenza?”.
Sui sette schermi, altrettante figure cristologiche ispirate dalle violenze della politica (le torture nella prigione di Abu Ghraib, come le uccisioni in Afghanistan) convivono con personaggi di ispirazione evangelica (Pilato impersonato da Marco Cavalcoli) in un paesaggio che evoca il giardino di Getsemani a Gerusalemme, il Monte degli ulivi, dove Gesù si ritirò dopo l’Ultima cena e da dove fu poi prelevato per essere crocifisso: una Passione attualizzata nel XXI secolo. E quale è la nostra reazione di fronte a queste tragedie quotidiane: “Siamo forse niente altro che consumatori del dolore altrui o esiste in noi veramente uno spazio per la compassione?”.
IL DOLORE IERI E OGGI
Durante il XX secolo il dolore, da fatto da condividere con la comunità, è progressivamente diventato fatto privato, sia per il disgregarsi dell’idea di comunità che metteva in gioco anche l’intimità dei suoi membri, sia per la medicalizzazione del dolore ‒ e il suo spostamento nella sfera del pudore – per mezzo della psicanalisi e delle terapie farmacologiche. Sono così venuti a essere totalmente riformulati, e spesso anche a cadere, i segni della rappresentazione sociale del dolore. In Observance (Bill Viola, 2002), la scena ha il sapore di un rituale funebre, ma non ci sono cause palesi che provocano il dolore: il singolo con le sue reazioni fa parte nello stesso tempo di un gruppo che non si dà come comunità, perché ciascuno è folla e individuo, è singolo e parte di una collettività di cui non si dà traccia di appartenenza. Questo dato si manifesta anche in The Garden, dove il pianto è singolare, individuale, non è per il dolore del mondo.
Susan Sontag nel suo saggio Davanti al dolore degli altri analizza l’iconografia della sofferenza e osserva che “il tormento, un soggetto canonico nell’arte, è stato spesso rappresentato in pittura come uno spettacolo, qualcosa che viene osservato (o ignorato) da altri”. Dalle foto dei campi di Dachau e di Hiroshima al gruppo scultoreo che raffigura il tormento di Laocoonte e dei suoi figli ai numerosi dipinti e sculture che rappresentano la passione di Cristo, le torture dei martiri cristiani, sostiene Sontag, sono tutte immagini che tendono a commuovere e a eccitare come di fronte a uno spettacolo.
IL TEATRO E IL DOLORE
Spostando l’attenzione sulla scena teatrale, riscontriamo nel secondo Novecento una scena che ha anestetizzato il dolore. Nella tragedia greca (Ecuba, Le Troiane) la sofferenza erompe spesso come frutto di forze oscure e non conseguenza di atti volontari e trova un canale espressivo attraverso la vocalità, i gesti sonori, le posture del corpo. Mentre la drammaturgia del secondo Novecento, alfiere Samuel Beckett, ha disegnato una scena priva di pathos, in cui, fra azioni insignificanti e prive di scopo, la fisica dei sentimenti è allontanata in una sorta di mondo scomparso, o come relitto scampato a una tempesta. Ippolito, in Phedra’s Love di Sarah Kane, è espressione di un non sentire, non patire e neanche godere. Neanche nell’atto finale della sua morte c’è spazio per un sentimento, se non narcisismo e spettacolarizzazione.
In The Garden è il canto il medium della sofferenza e non tanto le immagini delle persone che piangono, lasciando immaginare le atrocità subite, i soprusi, le torture, come nella omonima serie di Andres Serrano. I ritratti video di The Garden non fanno della sofferenza un fenomeno da guardare – spettacolare ‒ perché il dolore è interiorizzato grazie al canto e l’immagine è filtrata dalla voce di Claron McFadden. Perché ‒ e ce lo ricorda Corrado Bologna in Flatus Voci, “prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, c’è come potenzialità di significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità […]”.
Sarebbe interessante ricostruire le diverse rappresentazioni del dolore in rapporto ai periodi storici, ai contesti geografici-e sociali, al gender e realizzare un atlante visivo-sonoro del dolore nelle arti nel secondo Novecento e del Nuovo Millennio rinvenendo i diversi gestus. Come scrive Salvatore Natoli (La politica e il dolore, Roma 1996): “L’esperienza di dolore si fa eterogenea in se stessa a seconda degli scenari epocali in cui viene ad accadere”, ovvero ogni epoca conferisce al dolore un significato diverso.
‒ Valentina Valentini
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