L’opera al nero di Pascal Rambert alla Triennale di Milano
È stato presentato in prima italiana alla Triennale di Milano “3 Annunciations”, del regista e drammaturgo Pascal Rambert. Un lavoro ispirato a uno dei misteri più enigmatici e perturbanti della tradizione cristiana e all’impalpabile grazia delle sue rappresentazioni nell’arte rinascimentale: l’Annunciazione
Concepito come un trittico, 3 Annunciations è un’opera immersa nel nero, giocata sulla soglia del visibile, sul brulicare allucinatorio che si muove tra le nebbie della percezione, in quel fantasmatico emergere della forma dalle vertigini dell’oscurità.
Metafora della fatica del vedere, di un buio prenatale, del mistero del nascere, o di una nascita che l’umanità deve ancora vedere o forse non vedrà mai, questo nero di scena accoglie e insieme genera mostri. Porge allo sguardo le tre figure che identificano i rispettivi atti del trittico che imperano sul palco con costumi di grande potenza visiva: un Arcangelo Gabriele, una Madonna Spagnola, Vergine della Settimana Santa e di tutte le piazze, una figura del futuro, cyborg e astronauta allo stesso tempo, madre e figlia insieme, che si stagliano come icone, ieratiche e frontali, sacrali e profane.
3 ANNUNCIATIONS DI PASCAL RAMBERT
I tre monologhi, uno per ciascun quadro, vedono protagoniste l’italiana Silvia Costa, la spagnola Barbara Lennie e la francese Audrey Bonnet, interprete di tutti i lavori più importanti del regista francese, coinvolte in un’ordalia di parole solitarie senza ascoltatore, che pronunciano ognuna nella propria lingua madre.
Il linguaggio si dispiega come un flusso irreversibile, debordante, uno sciabordio di vocaboli senza tregua che interroga il mondo, l’esserci, il Dasein; reclama, ambisce a una profezia, lì sull’orlo della fine, sulla soglia della nascita, lì dove “il nero non è più il nero”, in un bagliore che acceca, per estensione sul precipizio di una catastrofe ecologica, o sull’alba di una nuova era.
Tutto avviene sotto la volta, sotto l’azzurro stellato della volta, nella piazza, in quel luogo del mondo in cui siamo gettati, nell’aperto, come sussurra nel primo quadro Silvia Costa. Con il costume infuocato del rosso dell’Arcangelo, in una visione che richiama con dettaglio minuzioso il capolavoro pittorico del Beato Angelico, l’attrice è voce embrionale che annuncia e insieme incarna l’Annunciazione, ne è il corpo, nel suo camminare sulle ginocchia, nel suo rivendicare la decisione ferrea e irreprensibile del venire alla luce per abitare il frastuono del mondo.
UNA NUOVA COSMOGONIA
E sotto la volta, nella strada, nel campo aperto di questa drammaturgia dal linguaggio puntuale e feroce, si erge anche la potenza femminea della Madonna verticale e spettrale, che proclama l’arrivo di un tempo violento, di lotte e di piazze. Afferma l’avvento di una nuova cosmogonia, in grado di superare insieme l’embriologia e la biologia, con riferimento alla donna annunciata dal mistero biblico, e con fierezza iconica, dalla sua altezza statuaria, scaglia la profezia dell’arrivo di una regina, di una donna verticale, che al mondo non piacerà.
Il terzo quadro è alla fine del tempo, in sconfinati paesaggi di confessioni e dolore, nel commovente salutarsi di una figlia e di una madre che nella catastrofe si lascia andare alla morte per cedere il passo alla salvezza della sua amata.
Un’unica attrice incarna in tenuta da astronauta entrambi i ruoli, in un orizzonte desolato dalle luci livide, senza gravità. Vaga in attesa di un mondo da trovare, su cui rifondare la storia, in un nuovo pianeta sulle ceneri di un’Europa dal capitalismo omeopatico, che in settant’anni di pace interna, ma di sostegno ai conflitti esterni alla sua fortezza, ha reso ineluttabile la distruzione della Terra.
L’OPERA DI RAMBERT
Nella potenza visiva del lavoro, emerge il potere del linguaggio, centrale nella riflessione di Rambert. Veicolo di distruzione o del più profondo e lacerante degli amori, si incarna in una parola che nella sua autonomia dal reale inchioda, violenta, costruisce il presente, senza poterlo fino in fondo spiegare, e avanza come un ricamo ossessivo, incessante, su cui si strutturano l’azione e la composizione scenica.
– Maria Paola Zedda
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