Dal cinema alla tv passando per il teatro. Intervista all’attore Max Mazzotta
Diplomato alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, allievo di Giorgio Strehler, da oltre vent’anni Max Mazzotta alterna la recitazione nel cinema e in televisione al lavoro teatrale con la compagnia calabrese Libero Teatro
Il lungo viso scavato, lo sguardo profondo e una significativa mimica facciale hanno caratterizzato alcuni dei suoi personaggi, lasciando il segno in pellicole divenute dei cult della cinematografia italiana. È il caso di Enrico Fiabeschi in Paz! di Renato De Maria, e ora di Freaks Out di Gabriele Mainetti. Ma è sul palcoscenico, che calca da venticinque anni, che Max Mazzotta (Cosenza, 1968) dà prova di essere, oltre che un bravo attore, un ottimo regista e un autore raffinato. Il suo ultimo lavoro, che lo vede protagonista in tutti e tre i ruoli, s’intitola Vite di Ginius e arriva a Roma, al teatro Sala Umberto, il 17 gennaio. Un viaggio di purificazione e consapevolezza che l’anima di Ginius, giunto alla fine della vita terrena, intraprende sulla barca del Caronte dantesco, traghettando in una dimensione sconosciuta nella quale ritrovare emozioni e dolori delle precedenti vite vissute sino alla catarsi finale. Un’elaborata riflessione sull’esistenza che interseca linguaggi, suoni e immagini in un insieme narrativo e recitativo di forte impatto.
INTERVISTA A MAX MAZZOTTA
Come nasce Vite di Ginius, che ha debuttato al Campania Teatro Festival la scorsa estate?
L’idea contenuta nel testo è di cinque anni fa; poi ci sono state altre priorità e la prima stesura è rimasta nel cassetto. Durante la pandemia l’ho ripresa e rielaborata, adattandola a monologo, poiché all’inizio era stata pensata per più personaggi. L’isolamento mi ha costretto a lavorarci da solo e mi sono reso conto che in realtà era la cosa più giusta da fare. Mi sono messo a provare in autonomia e, quando è stato possibile, abbiamo lavorato all’allestimento.
Qual è il significato, il messaggio insito nello spettacolo?
Vite di Ginius abbraccia molti temi: sicuramente contiene una riflessione sulla vita e sulla morte, ipotesi di vite vissute che trascendono le credenze e le religioni; la possibilità di rivedere i propri errori, in una vita odierna che ci allontana sempre più dall’osservazione di noi stessi. Lo spettacolo non dà risposte ma invoglia a porsi delle domande esistenziali, a considerare che l’altro siamo noi. Il teatro, nelle sue svariate forme, è “un modo per stare insieme e dirsi delle cose” e credo che questa funzione sia particolarmente importante in questo momento.
Il testo ha una sua forza anche nel linguaggio, che alterna poesia e prosa seguendo uno schema preciso.
Dovendo raccontare più mondi, ho dovuto usare linguaggi diversi. La parte astratta, relativa al viaggio di purificazione, al racconto di mondi immaginati, è in versi; la descrizione delle vite terrene è invece in prosa, nel linguaggio corrente, anche se si tratta di una prosa legata ai luoghi, antica e moderna contemporaneamente. La recitazione poi permette di sottolineare alcune frasi e lasciarne andare altre che si alternano come le onde del mare e alla fine di questo andirivieni il mare ti arriva lo stesso, percepisci il significato globale che va oltre le parole stesse.
Nello spettacolo la multimedialità ha una funzione importante, narrativa e scenografica. È stata una scelta obbligata?
Una cosa è il testo e un’altra cosa è la messa in scena. Per far capire al pubblico alcuni concetti mi sono servito dei video, oggi molto utilizzati specialmente dai giovani. L’immagine serve ad alleggerire l’impalcatura linguistica, che potrebbe risultare ostica. Ho preferito dare al pubblico anche un’esperienza visiva oltre che intellettiva. La combinazione di immagine, suono e recitazione dovrebbe portare il pubblico alla comprensione. Questo è il compito di chi fa teatro.
MAX MAZZOTTA E IL MESTIERE DI ATTORE
A questo proposito viene spontaneo chiederti: quando hai capito che volevi fare questo nella vita?
Me lo sto ancora domandando (ride, Nd.R.). Io sono cresciuto in un piccolo paese della provincia di Cosenza. È grazie a un professore delle scuole medie, che ci leggeva testi di teatro in classe, che ho provato un sentimento di appartenenza. Alle superiori ho messo insieme la prima compagnia; fatto il primo spettacolo in paese, ci sembrava che il teatro l’avessimo inventato noi. Finito il militare ho deciso di coltivare questa passione e sono partito.
È andata bene, mi pare. Hai avuto maestri eccellenti.
L’incontro con Giorgio Strehler è stato determinante. Mi sono trovato all’interno di una storia artistica enorme. È stata dura all’inizio, ma in fondo a ripensarci è stato anche facile. Ci sono corde che ti risuonano dentro e se le cerchi trovi la tua musica. Dopo la sua morte è iniziata l’altra esperienza fondamentale del mio percorso professionale con la compagnia Libero Teatro. Un viaggio pazzesco, bellissimo, che dura ancora oggi e mi auguro prosegua per molto tempo ancora.
Torniamo a oggi. Sei stato sugli schermi con il ruolo del “Gobbo” in Freaks Out, di Gabriele Mainetti, premio speciale alla Mostra del Cinema di Venezia. Ti aspettavi questo successo?
Sinceramente sì. Ero cosciente delle potenzialità del film, conosco Gabriele e sapevo che stavamo lavorando a qualcosa di molto originale e coraggioso. Del successo personale non ero convinto: mi sono divertito tanto, ho dato molto ma non mi aspettavo delle recensioni così favorevoli. Anche la partecipazione al festival di Venezia per me è stata una bellissima novità, vissuta con allegria e tranquillità. Spero solo che ne arrivino altre di esperienze come questa.
‒ Franca Ferrami
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