Il libro della giungla di Bob Wilson. Lo spettacolo al Teatro della Pergola a Firenze

La giungla di Wilson si apre come un libro pop-up, con scenografia di carta, figurine che appaiono e scompaiono. In scena a Firenze fino al 6 febbraio

Bob Wilson, citando Baudelaire, si dichiara convinto che “Il genio non sia che l’infanzia ritrovata grazie a un atto di volontà”. E Wilson deve aver avuto un’infanzia gioiosa a giudicare dalle macchine strabilianti che riesce a mettere in scena ogni volta che con atto di volontà ritrova “Peter Pan”, le fiabe di Pushkin o la Fontaine, e ora questo suo imperdibile “Libro della Giungla” in scena solo pochi giorni (fin al 6 febbraio) al Teatro della Pergola di Firenze che lo ha coprodotto con un gruppo di teatri europei (Le Théâtre de la Ville  Paris in testa).

LA GIUNGLA DI BOB WILSON

La giungla di Wilson all’inizio si apre come un libro pop-up, con scenografia di carta, figurine che appaiono e scompaiono, elefanti, orsi, lupi, scimmioni che sembrano strappati da un album delle elementari. Ma da questa partenza minimalista nasce una pirotecnica opera totale, un teatro delle ombre invaso dai colori, un continuo flusso energetico che non conosce pause e per un’ora e 15 minuti resuscita in ogni spettatore lo stupore dell’infanzia, grazie ( e soprattutto) alle musiche firmate dalle sorelle CocoRosie che  agli inizi della loro eccentrica carriera, rubarono all’infanzia persino gli strumenti giocattolo. Ed eccolo il nuovo “Jungle book”: una fusione di stili e suoni che porta a nuova vita quei personaggi animali resi immortali prima dalla penna di Rudyard Kipling che li ha creati, poi da Walt Disney che li ha animati. Perché fu Disney appunto nel 1967 a trasformare in blockbuster l’epopea (un filo imperialista) dello scrittore britannico, con un musical  che rileggeva e riadattava alla modernità dei tempi l’India della Regina Vittoria ed a una nuova idea di famiglia la storia del bambino trovato dai lupi , poi allevato da una madre volitiva e muscolare (la pantera Bagheera) e un babbo /mammo giocherellone e fanciullone Baloo, l’orso.
Ma Wilson nel 67 aveva 25 anni, troppi per considerare  il “Jungle book” disneyano con la sua versione decisamente apocrifa un ”coup de foudre” della sua infanzia. Qui, infatti, il grande artista/regista texano torna alle origini del libro e semmai a un’altra cinematografica fonte, quella firmata dai fratelli Korda: Zoltán regista e Alexander produttore, che dalla nativa Ungheria fecero fortuna a Hollywood con i primi filmoni technicolor, dal “Ladro di Badgdad” al “Libro della giungla”  del 1942 che segnò un successo epocale ed essendo ora di pubblico dominio val la pena di rivedere su YouTube.

Fu il technicolor appunto a regalare a Mowgly, immaginato completamente nudo da Kipling, quel perizoma rosso che poi non si toglie più né nelle versioni live action, né nei sequel, e neanche qui, sebbene Wilson (o meglio il suo straordinario costumista Jacques Reynaud) lo trasformi in una specie di babydoll, con camiciola e bermuda in seta che svolazzano intorno al corpo minuto, androgino e vibrante del protagonista Yuming Hey,  cantante e danzatore teso ed elettrico come un colibrì. Perché sono gli animali, resi ancora più animali da Wilson a trasformare i corpi, le voci, i gesti, di questi attori cantanti zoomorfi con i loro abiti/pelle che vanno dal maculato di Shere Khan, tigre dai lucenti denti d’oro vestita come un narcos, al velluto nero che fascia in un lungo la bellissima Bagheera. “Il mio lavoro è più connesso al comportamento animale che a qualsiasi scuola di recitazione …ho chiesto agli attori di essere capaci di trovare in loro stessi qualcosa di intuitivo persino animale, lontano dalla razionalità rigida… Kleist riteneva che un buon attore fosse come un orso “non attaccherà mai per primo, ma aspetterà che sarai tu a fare la prima mossa”… Essere come un orso capace di ascoltare con l’intero corpo, non solo con le orecchie. E ancor meno con la testa…” dice Wilson tra le note di regia.

Bob Wilson e le CocoRosie

Bob Wilson e le CocoRosie

ARTE E AMBIENTE NELLO SPETTACOLO DI WILSON

E gli attori hanno obbedito. Di più: capito, assorbito, interpretato la lezione dando vita a uno dei più ipnotici, frenetici e psichedelici serragli che si siano mai visti. Uno spettacolo perfetto e magnetico, una metafora sulla necessità di riunificazione e pacificazione che nel format riprende appunto la gioiosa idea disneyana di farne un musical. Anche qui infatti Baloo ci regala un numero canoro che sfida il celeberrimo “Bare Necessity”  ( per bimbi italiani “ ci bastan poche briciole,lo stretto indispensabile”) ma  il messaggio è decisamente più ecumenico con il grosso orso che invita Mowgly a guardare il mondo da un altro punto di vista, non solo quello del dominatore: “se canti ai fiori, i fiori cantano” dice ora con voce baritonale un obeso Baloo in abito scozzese.
Ma accantonando messaggi in difesa di un nuovo rapporto con il pianeta e le specie viventi (di certo non al centro delle preoccupazioni dell’autore ), quel che rende questa versione unica è la conferma di essere ancora una volta di fronte a un grandissimo e completo artista,  magico visionario capace di costruire un’opera totale con humour, gioco, fantasia, invenzione, sogno, poesia. Un uomo, o meglio un genio che ottant’anni da poco compiuti, ha mantenuto lo stupore dell’infanzia tanto da farne dono ad ogni suo spettatore. Dunque se volete riviverne l’esperienza è necessario fare presto e correre  subito a Firenze. L’occasione, purtroppo, dura solo pochi giorni.

Alessandra Mammì

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