Puerilia, l’iniziativa che avvicina i bambini al teatro
Fino ad aprile 2022, il Teatro Comandini di Cesena e la Biblioteca Malatestiana accolgono “Puerilia”, giornate di attività pensate per avvicinare i più piccoli alle arti performative nella cornice della scuola. Ne abbiamo parlato con Chiara Guidi, regista e attrice teatrale, cofondatrice della compagnia Societas
Spettacoli, un corso di aggiornamento per insegnanti, incontri con autori e pedagoghi, tra cui Cesare Moreno, esponente del progetto Maestri di strada, che lotta contro l’abbandono scolastico, Alessandro Scoti, fotografo, Vito Matera, scenografo. Per questa decima edizione, Puerilia si interroga sul valore delle immagini come strumento conoscitivo e di dialogo con le giovani generazioni, e sul teatro come esercizio dello sguardo e del logos, quindi anche della voce. Fino ad aprile 2022 sono tanti gli appuntamenti, non solo dedicati ai giovani ma anche agli adulti, ai quali Chiara Guidi (Cesena, 1960) chiede di usare uno sguardo bambino. Di questo abbiamo parlato con lei.
INTERVISTA A CHIARA GUIDI
L’infanzia è presente nel tuo lavoro e in quelli della Societas fin dagli esordi.
Che segno porta un bambino in scena?
L’inizio delle attività con l’infanzia ha coinciso con il nostro ingresso al Teatro Comandini di Cesena. Facevamo le prove dell’Amleto, spettacolo radicale sia dal punto di vista visivo che sonoro. Abbiamo voluto rivolgerci ai bambini, non tanto come categoria ma per ciò che rappresentano: l’infante, colui che vive prima del linguaggio. Ricercavamo questo sguardo ‘infans’, capace di prescindere dall’identificazione di una parola con l’oggetto, in grado di vedere nella cosa un’altra cosa, nel testo un altro testo, in un’immagine un’altra immagine.
Cercavamo un pubblico capace di interrogare la nostra idea di teatro, metterla in pericolo, proprio come i bambini spesso mettono sottosopra un ordine precostituito. Da una parte questa idea di un pubblico capace di stare di fronte all’immagine teatrale con lo sguardo di un bambino, dall’altra i bambini come interlocutori d’eccellenza per parlare agli adulti.
E quali sono stati gli esiti?
Nell’episodio di Bruxelles della Tragedia Endogonidia, un bambino di 6 mesi stava da solo in scena. La profondità del suo sguardo imbarazzava il pubblico. Questo capovolgimento dello sguardo è proprio ciò che accade nel teatro dell’infanzia: il bambino ti guarda ma in realtà tu lo guardi, è come una sorta di pedagogia rovesciata. L’infante potrebbe essere anche una metafora dello sguardo adulto che ricerchiamo: sospendere la categoria dell’informazione e guardare, in attesa che qualcosa si riveli, come accade spesso per la musica.
SCUOLA E TEATRO IN ITALIA
Quando penso al modello di scuola italiana, dalla primaria alla secondaria, fatta di tempi lunghi in cui il corpo viene dimenticato a favore dell’apprendimento di nozioni, in cui l’esperienza ha poco spazio e il mondo fuori fatica a entrare, mi chiedo se sia la cosa giusta per i nostri figli, nipoti e se lo è stato per noi. In che modo portare il teatro nelle scuole come modalità di apprendimento potrebbe essere all’origine di un cambiamento?
Per raggiungere i bambini, che hanno una forza del tutto irrazionale, c’è bisogno di rivolgersi agli adulti e al teatro come rappresentazione, luogo di una realtà che si va ad accostare alla realtà quotidiana. E per fare questo è necessario saper utilizzare il linguaggio iconografico. Un nuovo elemento agisce nell’apprendimento dei giovani oggi: lo sciame digitale, una massa di informazioni iconografiche di ogni tipo e che, nell’essere massa, diventano invisibili agli occhi. L’attenzione dunque va portata allo sguardo, chiedendo agli insegnanti di comporre, così come lo fanno con le frasi, un montaggio di immagini, che permetta a queste di acquisire valore, diventare visibili. La parola, che è discorso, conoscenza, noi sappiamo bene che nasce dalla solidificazione di un’esperienza che si quantifica in immagini e che viene raccontata. La scuola certamente ha cancellato dalla nostra cultura, quella scolastica, tutto ciò che è accaduto nel Novecento: le ricerche artistiche, fotografiche e il fatto che l’immagine sia entrata di diritto nel dominio del linguaggio. Ancora oggi l’immagine resta un elemento estraneo all’apprendimento scolastico, tutto basato sul testo scritto.
Forse ricollegarsi a questa forma di linguaggio potrebbe riavvicinare i giovani alla scuola. Ancor più in un contesto come quello della pandemia, in cui l’abbandono scolastico sembra essere in aumento.
Su questo tema interviene Cesare Moreno, che ha a lungo lavorato nelle strade di Napoli con i giovani in abbandono scolastico. Come fa un ragazzo ad apprendere, se porta un peso dentro? Come fa la scuola a ri-trovare la via dell’azione, seguendo un modello statico? Il cervello, lo sappiamo bene, è il rimando del cuore, che a sua volta è connesso al corpo. Le informazioni che non si confrontano col corpo rimangono dati gestiti senza profondità. In questo è importante la poesia dello sguardo.
IL RUOLO DELL’IMMAGINE NELLA DIDATTICA
In che modo agite nei laboratori attraverso il lavoro sull’immagine?
Operiamo un processo di montaggio, accostando più immagini si rivela una terza via. Abbiamo lavorato sulla figura emblema dello sguardo, la Medusa, a cui si collegano temi legati alla storia dell’arte, all’architettura, alla natura, al mito ma anche il tema della morte, un tabù dei nostri tempi.
Nei laboratori che conduci lavori molto sull’aspetto materico della voce. Un veicolo di conoscenza fin dalla prima infanzia, che poi diventa strumento di rappresentazione di sé. Cosa resta della nostra voce bambina?
Quando il bambino è neonato, la madre interpreta qualsiasi segno legato alla voce, come può essere il pianto o il silenzio, analizzando la gamma di suoni come un codice linguistico, la presenza di una assenza del detto. In età adulta è la parola che rimanda a una presenza, a un oggetto. Ma quanti oggetti della stessa specie ci sono dentro una parola? Prova a pensare alla parola rosso: quanti rossi ci sono nel rosso? Se in una cultura arcaica per identificare il mare c’erano centomila parole (il mare in tempesta, il mare pacifico ecc. ecc.), noi lo abbiamo ridotto a una. Ma questa parola ci chiede di essere interpretata, come se fosse l’indizio di qualche cosa, attraverso il suono della voce. La stessa parola posso dirla con timbri e toni completamente diversi, quindi il corpo della voce, è ciò che veicola, nel caos delle possibilità, un significato della parola. Ciò è vero per l’attore ma anche fuori dal teatro, nella quotidianità, come lo era per la mamma con il bambino.
– Chiara Pirri
https://www.societas.es/opera/quete-puerilia-2022/
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