L’adattamento teatrale di un grande romanzo russo, a dispetto della censura
Fausto Russo Alesi porta in scena il celebre romanzo di Ivan Turgenev, che, quando venne pubblicato, suscitò l’irritata contestazione dello zar Alessandro II. A riprova – se ancora ce ne fosse bisogno – di quanto la cultura russa si fondi sulla libertà di pensiero e sulla contestazione della tirannide
“Andiamo in scena mentre l’Europa è sconvolta da una guerra che fa orrore a tutti noi. Andiamo in scena perché è un atto vitale e di confronto tra esseri umani. Andiamo in scena convinti che le parole di Turgenev ci aiutino a capire quanto inaccettabile e insensata sia la violenza di un uomo su un altro uomo o su un intero popolo. Dialogo, non carri armati, non bombe, non muri. Dialogo”. Così Fausto Malcovati, in scena nei panni dell’Autore, introduce la messinscena – polifonica e poliemozionale – di un denso romanzo ottocentesco che, descrivendo il problematico scontrarsi fra due generazioni ugualmente velleitarie e fragili, ribadisce quanto sia indispensabile la costante ricerca – se non la definitiva e granitica conquista – della Verità. Che consiste, in primo luogo, nel “sapere chi sei e verso dove vuoi andare”.
IL ROMANZO DI TURGENEV E IL PROGETTO SUL PALCOSCENICO
Risale al lontano 2016 – sei anni, un’epoca fa – l’idea dell’attore e regista Fausto Russo Alesi di realizzare un adattamento per le scene di Padri e figli, avvalendosi della collaborazione di Fausto Malcovati, fra i massimi studiosi e conoscitori italiani di cose russe. Un progetto costruito anno dopo anno, grazie a Centro Teatrale Santacristina e a ERT, assorbendo quanto intanto nel mondo accadeva – e ancora tragicamente e intempestivamente accade ‒ e ponendolo in dialogo con la prosa di Turgenev.
Il conflitto fra genitori ‒ conservatori e autodichiarati difensori di una sacra identità russa, pur infarcendo volentieri il discorso di espressioni francesi – e figli ‒ ribelli per principio e nichilisti per darsi un’etichetta – diviene paradigma di un’esistenziale necessità di credere in qualcosa, benché irrimediabilmente indeterminato e astratto e dunque non suscettibile a tradursi in concreto programma di trasformazione, tanto della propria vita quanto della realtà.
Turgenev non prende le parti né dei padri né dei figli, scansando così la tentazione di un facile manicheismo a favore, invece, di un ritratto non ideologico bensì intento e partecipe della complessità dell’animo umano. Il romanziere – vissuto all’epoca di Alessandro II, lo zar che introdusse certo alcune riforme liberali ma che, nel 1864, proibì l’utilizzo dell’ucraino nella liturgia e nell’insegnamento – plasma figure contradditorie e fragili, sovente incapaci di guardare con chiarezza dentro sé stessi e, dunque, di realizzarsi autenticamente.
Il protagonista, il giovane nichilista Bazarov, antipatico e intollerante, sprezzante e apparentemente ingrato nei confronti dei propri genitori, semplici e onesti, è paradigma di un’ansia di cambiamento “a prescindere” che non sa nondimeno tradursi in concreto e realistico progetto di vita. E, d’altro canto, l’aristocratico padre del suo migliore amico Arkadij custodisce uno status quo di cui sa riconoscere i limiti pur ignorando i modi per superarli.
Turgenev, insomma, non sceglie di parteggiare per nessun dei propri personaggi ma, descrivendone inani velleitarismi e confuse ipotesi di redenzione, pigrizie mentali e difesa della propria instabile posizione, afferma con affabile risolutezza la necessità di riconoscersi a se stessi e di perseguire la propria verità, nella vita professionale così come nelle relazioni personali e sentimentali.
LO SPETTACOLO E L’ATTUALITÀ DELLA GUERRA
Padri e figli nel suo rifiuto di offrire facili soluzioni ideologiche, nella sua implacabile eppure empatica analisi dell’animo umano, non offre – nella Russia ottocentesca dello zar Alessandro così come in quella attuale, analogamente guidata da un “umorale” plenipotenziario – alcun appiglio per la retorica di regime, nessun articolato manifesto da opporre ai contestatori. Al contrario, il romanzo si offre quale arma per contrastare le semplificazioni del potere, le sue giustificazioni manichee. Ecco, allora, che lo spettacolo di Russo Alesi si apre con un’esplicita e sonora scena corale: i tredici giovani interpreti, schierati in piedi, tengono in alto il copione, affermando così il potere “sano” della letteratura. Se la retorica propagandistica semplifica e banalizza; le lettere problematizzano e interrogano, ognora ribadendo la vitale esigenza di ricercare la Verità, ben evidenziata da Turgenev, il cui spirito è incarnato in scena dallo stesso Fausto Malcovati e trasmesso per suo tramite alle nuove generazioni, qui racchiuse nel corpo quasi adolescenziale di Marina Occhionero, narratrice che mai toglie lo sguardo dall’Autore, ricercandone allo stesso tempo conferma e complicità.
Lo spettacolo, da vedere per spazzare via qualsiasi semplificazione russofoba e comprendere come “nessuna cultura ha avuto tanto coraggio, come la cultura russa, di opporsi ai tiranni, ai diktat, ai bavagli” (ancora Fausto Malcovati, su La Lettura di domenica 13 marzo), dopo il debutto a Modena e le date bolognesi, sarà ancora in scena a Napoli e a Pordenone.
‒ Laura Bevione
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