Amore, morte e teatro nello spettacolo di Angélica Liddell

Dopo il debutto ad Avignone la scorsa estate, è giunto sul palcoscenico dell’Arena del Sole a Bologna, per le sue uniche date italiane, il nuovo potente e stratificato spettacolo dell’autrice, regista e performer spagnola. Due densissime ore di disturbante, generoso e autentico teatro

Ho la fortuna di desiderare ardentemente, con tutta la potenza della mia anima, ciò che più di ogni cosa può ferirmi. Solo così riesco a illudermi di esorcizzare il male”. La sofferenza, ricercata ma certo non masochisticamente goduta bensì vissuta in un’auto-generata catarsi; l’amore, che soltanto nella morte pare raggiungere l’agape; ma anche le ragioni della sopravvivenza del teatro, tanto per i performer quanto per gli spettatori.
Liebestod. El olor a sangre no se me quitade los ojos. Juan Belmonte è la terza tappa del progetto Storia(e) del Teatro ideato da Milo Rau per il suo NTGent e da lui stesso avviato nel 2018 con La Reprise, proseguito con un lavoro del coreografo congolese Faustin Linyekula e destinato, dopo l’opera di Angélica Liddell (Figueras, 1966), a svilupparsi in un quarto capitolo affidato all’artista belga Miet Warlop.
Questa terza sezione, intanto, ci appare come spettacolo germinato da ispirazioni eccentriche e nondimeno coerenti. La biografia del leggendario torero Belmonte – cantato, fra gli altri, da García Lorca e Valle-Inclán – ma anche Tristano e Isotta – nella versione di Wagner, da cui è tratto il titolo, Liebestod, “morire d’amore” –; riflessioni rubate a Emil Cioran e, inevitabilmente, la biografia della stessa Liddell – la dedica reiterata all’amato Heysel certo ma, in primo luogo, la sua nuda interiorità.
Motivi tradotti sul palcoscenico – tendaggi arancione pallido a delimitare lo spazio, sul fondo una sorta di palizzata in legno a suggerire il recinto dell’arena – ora in visioni surreali e perturbanti ora in sferzanti e lancinanti monologhi, distinti da rapidi e perentori sipari.

Angélica Liddell. Photo Bruno Simao

Angélica Liddell. Photo Bruno Simao

PERFORMANCE ART, TEATRO, DANZA E CANTO SECONDO ANGÉLICA LIDDELL

Angélica Liddell restituisce senso tanto alla Performance Art in stile Abramović, quanto alla Body Art. A quest’ultima pratica, che non è banalmente masochismo ovvero esibizionismo, l’artista spagnola non soltanto attribuisce un disperato valore di dono generoso e gratuito al pubblico; ma, con quel suo diligente e metodico ferirsi e farsi sanguinare, conia un idioletto che articola gesto, coreografia, vocalità e canto in una sintassi elaborata eppure sonoramente eloquente.
Liddell – figura minuta quasi sempre nerovestita – riempie il palcoscenico, rivolgendosi direttamente agli spettatori, costringendoli a prendere posizione rispetto a quanto confessato nei suoi monologhi. La sua voce ‒ stridula e dolce, accelerata e spezzata, ansante e precisamente ritmata, capace di scivolare naturalmente in canto – dà letteralmente corpo a racconti di visioni allucinate e verità esistenziali ma pure ad autobiografiche esperienze e interrogazioni.
Da sola in scena, ovvero in relazione a un toro ‒ interlocutore silente, Tristano-figura di un amante perduto nello straziante finale – o michelangiolesca pietà che tiene fra le braccia un performer disabile, Liddell percorre quella realtà intrinseca dell’esistenza umana che l’urgenza della quotidianità sposta in ben celati anfratti, facendoci scordare che “la morte non è la tragedia, la tragedia è nascita”. Ecco allora quell’auspicio disperatamente pragmatico ‒ “voglio morire, perché voglio vivere, e per questo vivo morendo” ‒ che sembra rievocare l’ungarettiano “la morte si sconta vivendo”.

Angélica Liddell, Liebestod. Photo Christophe Raynaud de Lage

Angélica Liddell, Liebestod. Photo Christophe Raynaud de Lage

LO SPETTACOLO DI ANGÉLICA LIDDELL

Liebestod, tuttavia, non è “solo” un potentissimo spettacolo sulla nuda verità dell’esistenza umana ma, da una parte, dichiarazione, tutt’altro che auto-assolutoria, dei propri limiti di artista – e di essere umano – e, dall’altra, richiamo niente affatto politicamente corretto né condiscendente alle responsabilità degli spettatori.
In un lungo monologo, Angélica si rivolge a sé stessa, ammettendo sia la propria incapacità di raccontare qualcosa che non sia la sua vita, sia quella desolata solitudine affettiva ‒ “sai già chi andrà a ritirare le tue ceneri?” ‒ che la spinge a salire su un palco a tentare di conquistare il momentaneo amore di sconosciuti.
All’umana fragilità dell’artista fa però da contraltare la consapevole e ricercata mediocrità di quelli che quella stessa fertile fragilità dovrebbero curare e proteggere: gli amministratori del teatro, la società in generale, certo, ma pure il pubblico, che troppo facilmente pare essersi ambientato in una realtà plasmata da “super-sviluppo freddo, stantio e borghese” e priva di fede e di amore. È lucido, durissimo il quadro desolante della società occidentale composto dall’artista spagnola, che applica metodicamente la stessa nitidezza e severità di analisi tanto alla propria esistenza quanto alla realtà esterna, pretendendo dunque legittimamente la medesima auto-sincerità dagli spettatori, portandoli a constatare quella oramai imperante “carenza di spirito” che la rassicurante cultura mediocre maldestramente vorrebbe occultare.
Cosa c’entra, allora, questo sferzante e sicuramente disturbante monologo con Belmonte, con Tristano e Isotta, con Cioran e pure Rimbaud? C’entra, con rigorosa e salda coerenza, perché in quale altro modo, se non con l’“occhio” dello spirito, potrebbero l’artista e il pubblico addentrarsi nel mistero dell’esistenza concentrato in quel rito pagano e spiritualissimo, fatto in egual misura di sangue e di anima, che è la tauromachia?

Laura Bevione

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Laura Bevione

Laura Bevione

Laura Bevione è dottore di ricerca in Storia dello Spettacolo. Insegnante di Lettere e giornalista pubblicista, è da molti anni critico teatrale. Ha progettato e condotto incontri di formazione teatrale rivolti al pubblico. Ha curato il volume “Una storia. Dal…

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