Lo spettacolo teatrale del Leone d’oro alla carriera Christiane Jatahy
A metà tra un film e un’opera teatrale, “The Lingering Now”, lo spettacolo del Leone d’oro alla carriera per il Teatro della Biennale 2022, scavalca i confini tra le discipline artistiche e ci parla di come il teatro può rompere i muri e costruire uno spazio in cui trasformare il presente
“Vorrei creare un momento sospeso tra passato e presente, tra realtà e finzione, tra cinema e teatro, in cui riuscire, anche leggermente, a cambiare il mondo”. Lo spettacolo The Lingering Now ‒ O Agora que Demora si apre con questa dichiarazione di poetica fatta in scena dalla sua autrice, Christiane Jatahy (Rio de Janeiro, 1968), drammaturga e regista brasiliana vincitrice del Leone d’oro alla carriera per il Teatro della Biennale 2022, con la direzione Ricci-Forte. Denso dell’impegno politico proprio della produzione dell’artista, il lavoro di Jatahy arriva sul palco del Teatro alle Tese di Venezia a gridare tutta la sua urgenza, attraverso un racconto corale, forte e diretto, che non rischia di cadere nel vicolo cieco dell’intellettualismo e dell’autoreferenzialità.
THE LINGERING NOW DI CHRISTIANE JATAHY
Con The Lingering Now Jatahy chiude il dittico Our Odissey ispirato al poema epico greco, iniziato nel 2017 con il primo pannello, Itaca. Nonostante secoli ed epoche ci separino dalla narrazione omerica sul viaggio di ritorno di Ulisse in patria, non c’è esperienza più puntuale in grado di restituire l’esodo di migliaia di rifugiati, i nuovi eroi della contemporaneità ‒ troppo spesso ignorati ‒ che lottano per tornare nella loro Itaca. Sulla scia della ricerca iniziata nel 2013 con l’installazione Utopia.doc, Jatahy insiste sui temi di casa e asilo per denunciare apertamente la situazione drammatica vissuta dai suoi connazionali brasiliani, alcuni dei quali costretti all’esilio, a causa delle azioni repressive del malgoverno della destra.
The Lingering Now ci parla della distanza dalle storie dei migranti che scegliamo quotidianamente di prendere, forse legittimata dalla lontananza fisica e dalla paura, che solo l’arte, secondo Jatahy, è in grado di cancellare – lei, la “drammaturga di confine”, sulla cui mescolanza di codici ha cucito la propria cifra stilistica. Ma le tante odissee, a tratti raccontate dagli attori in scena e a tratti dalle persone poste dietro lo schermo, guardandoci dritto negli occhi, non hanno a che fare con l’epica ma con la cruda realtà. Una camera a presa diretta ci scorta nelle case distrutte dell’Iran, dove i bambini di 12 anni preferiscono togliersi la vita pur di non subire la sofferenza della guerra; in Libano, dove Yara è costretta, allontanata dalla sua Siria, dopo aver fatto esperienza dell’orrore della prigionia per l’accusa infondata di terrorismo e satanismo. I versi di Omero si liberano attraverso le voci di alcune ragazzine del Sudafrica e si arriva dritti in Amazzonia. Alla ricerca delle sue radici, Christiane Jatahy fa visita alla tribù indigena dei Kayapò, stanziata nel punto della foresta amazzonica in cui si consumò la tragedia di suo nonno, disperso durante un volo aereo. Questa tribù, relegata in pochi ettari di terra, convive ogni giorno con la minaccia della deforestazione e con gli scavi illegali di miniere d’oro, rappresentando un esempio di resistenza in cerca di ascolto.
IL RUOLO DEL PUBBLICO SECONDO JATAHY
Su questo dualismo tra realtà e finzione, qui e ora del teatro e passato prossimo delle scene filmate si fonda l’impianto drammaturgico dello spettacolo, lo spazio sul quale il pubblico ‒per Jatahy inteso come il “coro” osservatore e trasformatore del teatro greco ‒ ha il potere di intervenire sulla realtà. “Portare il dispositivo cinematografico nel Teatro, facendo dialogare due differenti processi, mi consente di creare un nuovo punto di vista per il pubblico sulle storie che racconto. In questa drammaturgia di confine ho trovato il modo di esprimermi”. Lo spettatore rimane catturato all’interno di una macchina scenica in cui gli attori, seduti in platea, interagiscono con esso e con le persone/personaggi dello schermo, nel tentativo di rompere la linea di confine tra due spazi, una linea solo immaginaria, come immaginario è il vetro attraverso il quale Yara guarda impotente la propria casa, così vicina e così impossibile da raggiungere. “Come artista porto avanti la responsabilità del teatro di farsi atto politico. Attraverso il mio lavoro cerco di interrogare un presente pericoloso e triste, di mettere le persone davanti a una scelta e dar loro uno strumento per supportarle nella loro quotidiana resilienza”.
‒ Valentina Cirilli
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